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“L’invasione degli Space Invaders” di Martin Amis

Creato il 22 settembre 2013 da Sulromanzo
Autore: Vincenzo NeveDom, 22/09/2013 - 11:30

Martin Amis, L'invasione degli space invaders«Gran bel lavoro, eh» gli ho detto «giocare a Space Invaders tutto il giorno.» «Sì» mi ha risposto sorridendo. «E cosa fai la sera?» Il ragazzo ha fatto una faccia seria, riflessiva, perplessa. «Be’, di solito esco a farmi un paio di partitine a Space Invaders».

Per chi è stato bambino o adolescente (anche adulto, a leggere il libro) negli anni Ottanta, per chi ricorda l’emozione di essere davanti a un cabinato di Pac-man a tentare di mangiare tutti i puntini sfuggendo ai fantasmi o ad abbattere astronavi aliene, per chi è dipendente da videogiochi o altro, per chi non riesce oggi a rimanere senza computer o staccarsi dall’iPhone,  per chi apprezza Martin Amis, per loro e per chiunque abbia un po’ di curiosità è arrivata in libreria una chicca editoriale, meritoriamente pubblicata da ISBN edizioni (con la traduzione di Federica Aceto) a trent’anni di distanza dall’edizione originale.

Parliamo de L’invasione degli Space Invaders di Martin Amis, opera del 1982 dello scrittore inglese, tradotta per la prima volta in Italia e pubblicata in una piacevolissima veste editoriale, con numerosi inserti fotografici e grafici. Diario di una dipendenza e appassionante analisi sociologica sull’homo ludens di fine secolo, il testo appare ancora più attuale oggi, che i processi tecnologici e sociali iniziati in quegli anni si sono sviluppati in maniera esponenziale. E così quello che vuole essere un sincero e dettagliato affresco dell’era delle sale giochi e dei videogiochi arcade diventa un viaggio su “com’è iniziato...”. Leggendo le pagine di Amis, che partono dall’avvento nel ‘79 di Space Invaders, seguiamo la sua dipendenza da gioco, i disturbi del sonno, l’ossessione di vincere e scoprire cosa c’è nel quadro successivo, il dilagare del fenomeno con implicazioni politiche ed economiche, i casi, in Italia e non solo, di prostituzione minorile per racimolare monetine da investire nei coin-op, i furti e le aggressioni, il dibattito nel Parlamento inglese tra il deputato laburista che vuole proibire Space Invaders e quello conservatore che, dopo essere andato al pub a farsi una partita, lo difende strenuamente.

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Martin Amis, L'invasione degli space invaders
Al di là della precisa guida ai videogiochi del tempo, da Space Invaders appunto a Pac-man, da Asteroids a Donkey Kong, il diario di Amis ci offre un interessante affresco degli anni Ottanta, quelli in cui, tra paure di una guerra nucleare (ricordate film come Wargames o The day after?) e rapidissimi cambiamenti tecnologici, «tale è la stagflazione nell’aria che non potremmo nemmeno permetterci di camminare, o di respirare. Eppure ovunque ci giriamo vediamo cose che contraddicono questa impressione generale», e orde di ragazzini che combattono la loro battaglia senza staccarsi dallo schermo, sentendosi parte di “una commissione mondiale di esperti”, non troppo diversamente da oggi, se non per il passaggio dalla sala giochi al rapporto un po’ autistico con il proprio PC soli a casa nella loro camera. Con ironia e autoironia Amis ci conduce in un viaggio più profondo di quanto si potrebbe pensare facendosi distrarre dall’inevitabile, almeno per chi ricorda quei tempi, nostalgia, ricordandoci di quando, ad esempio, quello che all’epoca era ancora un certo “Steve Jobs dell’Atari” spiegava che «i computer rappresentano una vetta tra le più alte del pensiero razionale occidentale. Uniscono fisica, elettronica, chimica e matematica a logica, filosofia e teoria dell’informazione. E gli individui che lavorano con i computer hanno un’enorme passione per la scoperta e l’innovazione. È una passione che ho riscontrato solo in chi nutre un ideale di verità e lo persegue per tutta la vita. Hanno la stessa purezza di spirito dei monaci» e magari quei ragazzini che passavano pomeriggi interi a combattere gli alieni successivamente hanno messo a frutto le competenze acquisite allora, oppure scopriamo che la tecnologia che stava dietro i videogames era spesso più avanzata di quella adoperata nel campo degli armamenti e come, dopo l’invasione dell’Afghanistan, Carter vietasse l’esportazione di prodotti tecnologici in Unione Sovietica e l’industria dei giocattoli giocasse un ruolo strategico in questo. O, ancora, l’utilizzo dei giochi a scopi di addestramento militare o didattici. Tutti spunti che negli anni successivi si sarebbero approfonditi in maniera decisiva. Perché non c’è bisogno di aver letto Winnicott per comprendere come poche cose siano più serie del gioco.

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