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L’invenzione della madre

Creato il 03 marzo 2015 da Salone Del Lutto @salonedellutto

L’ho comprato sabato. L’ho iniziato domenica sera e, come sempre più raramente accade, non ho potuto più farne a meno. Sul treno, al bar, sul divano di casa. L’invenzione della madre, il romanzo d’esordio di Marco Peano, alla terza ristampa in due settimane, non dà tregua, e tu ti asserragli nella lettura finché non l’hai portato a conclusione.

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È un romanzo che parla di amore. L’amore più antico, quello che l’illustrazione di copertina di Alessandro Gottardo descrive come un qualcosa che t’investe e t’inebria, senza che spesso tu riesca a registrarlo consapevolmente. È l’amore fra una madre e un figlio, che si nutre di tanti ricordi lontani – quelli in cui lei stava bene e non lesinava neppure qualche ceffone terapeutico a Mattia, quelli in cui lei si è ammalata e ha sconfitto il male – e di tanti ultimi istanti in cui ci si prepara a dire addio – perché alla fine il male è tornato e l’ultima volta che l’ha fatto è stato per sempre.

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È un romanzo che parla di morte e di tante altre parole indicibili. E che c’induce a riflettere una volta di più su come il nostro vocabolario del dolore sia incommensurabilmente povero e vuoto, perché tante parole le allontaniamo, le chiudiamo in gabbia e le releghiamo lì dentro sperando di non dovervi mai fare ricorso. Cancro è la parola, forse ancora più di morte. Nessuno vorrebbe doverla usare e, anche nel momento in cui ci è costretto, ricorre spesso a perifrasi, sostituendola con un più impersonale male, ad esempio, che può essere il cancro ma può anche essere altro, in mille variazioni d’intensità. Peano questa parola la dice e la scrive. Così come scrive morte. E come scrive altre parole mostruose, termini precisi, legati al decorso e alla descrizione della malattia. Il suo modo di entrare nel dettaglio mi fa venire in mente un altro romanzo, Il libro delle mie vite di Aleksandar Hemon dove l’autore, scontrandosi con il dolore anche più grande – è lecito classificarli? – della morte della propria figlia si ribella, in un certo senso, a quanti gli dicono che non ci sono parole… «Una delle più comuni banalità che ci capitava di sentire era che “mancavano le parole”. Ma le parole a me e Teri non mancavano. Non era vero che non c’era modo di descrivere la nostra esperienza. Io e Teri avevamo un vasto linguaggio per parlare tra noi dell’orrore di quello che stava accadendo, e ne parlavamo. Né mancavano le parole del dottor Fangusaro e del dottor Lulla, sempre dolorosamente pertinenti. Se c’era un problema di comunicazione era che di parole ce n’erano troppe; ed erano di gran lunga troppo gravi e troppo specifiche per essere inflitte agli altri». Alla fine, all’ultima parola dell’ultima riga dell’ultima pagina ci renderemo conto che l’unica parola che nell’Invenzione della madre è stata taciuta e ci viene concessa come un regalo prezioso è la parola «più docile e più forte». La prima. E ci culliamo a leggerla scritta così. Nero su bianco.

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È un romanzo che parla dell’impossibilità di diventare e di essere adulti. La cognizione del dolore è strana. Ognuno la affronta a modo proprio e per ognuno c’è un modo di approcciarsi agli eventi tragici dell’esistenza. Ci sono bambini che si trasformano in piccoli uomini. E ci sono uomini che restano come intrappolati in una sorta di pulviscolo luminoso e irreale in cui il tempo non passa. Per Mattia è così. Vivere fianco a fianco con una madre-cancro lo costringe ad assumersi responsabilità enormi, come la cura di un corpo che si spegne in modo violento, e che molti non hanno mai fortunatamente avuto occasione di sperimentare. Ma al tempo stesso lo isola in un limbo da cui non riesce a riemergere. Il rapporto con la sua ragazza rimane esattamente quello: il rapporto con una ragazza. Fatto di frequentazioni nel weekend, sms, nessun progetto comune. La scelta di cosa fare da grande è pregiudicata: non si assecondano interessi e passioni, non si compiono scelte, ci si accontenta di un lavoro in videoteca. Mentre la madre muore Mattia è come immobile. Vivacchia. Da quando c’è, è il cancro a dettare il tempo e il modo di trascorrerlo. «Il nucleo famigliare formato da madre, padre e figlio ha resistito a tutti quegli affondi tanto da far pensare a Mattia che il cancro sia in realtà il legame, ciò che li tiene uniti, ciò che permette di continuare a sommare un giorno agli altri giorni».

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È un romanzo sul rapporto con un corpo che si deteriora, che lancia continui segnali sulla sua prossima sconfitta. È un corpo che suscita migliaia di sensazioni diverse. Dalla voglia di guardarlo, appropriandosi di ogni sua cicatrice, ogni sua piaga, ogni suo alito, alle amorevoli cure che Mattia gli rivolge, pulendolo, disinfettandolo, cambiandolo, annullando quasi il ricordo di quel che era prima. «Si ritrova a fissare le tracce della donna che lo ha generato e si dice: ogni respiro suo che mi perdo, non accadrà mai più. Mattia è diventato una videocamera di carne e sangue che registra incessantemente la madre. Quando però prova a immaginarla prima della malattia, incontra una specie di ostacolo mentale che frena il ricordo. È incapace di visualizzare il ricordo di lei se non sovrapponendolo con quello che conosce ora: gonfiato dal cortisone, deturpato dalla chemioterapia, il cranio calvo e rinsecchito, l’azzurro svanito dagli occhi. Ogni ricordo è un corpo in cui l’ovale del viso è assente: un buco, come in una fotografia di cui qualcuno ha ritagliato il volto del soggetto».

Infine, è un romanzo dalla scrittura delicata, attenta, piena di grazia e di sensibilità. Una scrittura autentica, che è riuscita nel compito difficilissimo di descrivere l’inesorabile.

di Silvia Ceriani

Chi segue questo blog, sa che la ricerca iconografica è un elemento essenziale. Per illustrare il libro di Marco Peano, ho scelto immagini che raccontano di un’altra perdita, un altro dolore, quello che un marito ha provato e prova per la malattia e la morte della sua giovane sposa. Le ha fatte Angelo Merendino, ripercorrendo la malattia di Jane nel progetto fotografico intitolato “My Wife’s Fight With Breast Cancer“. Jane è morta il 22 dicembre del 2011, alle 8 e mezza del mattino. Aveva compiuto da poco 40 anni.

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Marco Peano
L’invenzione della madre
minimum fax, 2015

Questa è una storia d’amore. Si tratta dell’amore più antico e più forte, forse il più puro che esista in natura: quello che unisce una madre e un figlio. Lei è malata, ha poco tempo, e lui, Mattia – sapendo che non potrà salvarla, eppure ostinandosi contro tutto e tutti – dà il via a un’avventura privatissima e universale: non sprecare nemmeno un istante. Ma in una situazione simile non è facile superare gli ostacoli della quotidianità. La provincia in cui Mattia abita, il lavoro in videoteca che manda avanti senza troppa convinzione, il rapporto con la fidanzata e con il padre: ogni aspetto della sua vita per nulla eccezionale è ridisegnato dal tempo immobile della malattia. Un rifugio sicuro sembrano essere i ricordi: provare a riavvolgere come in un film la memoria di ciò che è stato diventa un esercizio che gli permette di sopportare il presente. Ma è davvero possibile sfuggire a se stessi?
In questo viaggio dove tutto è scandalosamente fuori posto, è sempre il rapporto con la madre a far immergere Mattia nella dimensione più segreta e preziosa in cui sente di essere mai stato. Raccontando di questo everyman, <grazie al coraggio della grande letteratura, Marco Peano ridà senso all’aspetto più inaccettabile dell’esperienza umana: imparare a dire addio a ciò che amiamo.

Leggi la conversazione tra Marco Peano e Nicola Lagioia


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