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L’Isola del Giorno Prima e l’Ossimoro del Secolo XVII

Creato il 18 settembre 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Mario Turco 18 settembre 2013L’Isola del Giorno Prima e l’Ossimoro del Secolo XVII

Recentemente ho partecipato a due giochi narrativi chiamati vetustamente romanzi di due degli scrittori più celebrati delle lettere italiane degli ultimi decenni: Aldo Busi e Umberto Eco. Conscio della loro antinomia vitale mi piace accostarli e riportare il giudizio del primo sul secondo come base di partenza per una riflessione su L’isola del giorno prima, da me letto nella prima edizione Bompiani del 1994: «Eco è sempre autoriale, professorale, indefessamente autoidentitario, echeggia se stesso di bustina in bustina, letta una, lette tutte. Io posso spiegare Adorno senza mai citarlo, lui nemmeno si proverebbe mai: come i cani che orinano, innanzitutto deve circoscrivere il suo territorio e le sue competenze, di fatto li impone». Prescindendo dalla metafora mingente Busi riassume con concretezza il nocciolo della scrittura di Eco come romanziere e in particolare quella di questa sua terza opera in ordine cronologico. Il semiologo piemontese vive infatti la narrativa secondo una dimensione etica e la piega ai fini della sottile arte della divulgazione massofila. Perfino il tanto conclamato periodo del Gruppo 63 può essere visto come una tappa di un intellettuale che fa sperimentazione consapevolmente, quasi per poter dire da vecchio di aver vissuto anche quel fermento giovanile, come se la sperimentazione fosse solo una fase da accantonare con la crescita della critica della ragion pura. L’isola del giorno prima più che un romanzo storico sembra essere un racconto filosofico a cui non giova la consueta mole di pagine vergate, 473 per questo lavoro. Lontano dalla freschezza del giallo de Il nome della rosa e dall’intrigo massonico de Il pendolo di Foucault (che resta ad oggi il suo libro migliore), Eco punta il suo cannocchiale da studioso verso il Seicento, il secolo troppo spesso bistrattato come dormiente perché incuneato tra lo splendore artistico del Rinascimento e le fiaccole dell’illuminismo. Ancora più dei suoi precedenti lavori egli scandisce e amplia le discipline con cui mette a fuoco le grandezze e gli errori di quel periodo: linguistica, fisica, astronomia, filosofia, diplomazia, storia. Così il romanzo, dal punto di vista meramente affabulatorio, vive di momenti, di situazioni e di personaggi (il mercuriale Saint-Savin viene eliminato presto come sfida all’empatia del lettore).

L’Isola del Giorno Prima e l’Ossimoro del Secolo XVII

La parte su Casale Monferrato è quella migliore proprio per la mancanza di sconfinamenti accademici ma dura poche pagine, come se lo stesso scrittore fosse consapevole della malia narrativa di quello spaccato e cercasse di liberarsene per evitare la piacevolezza di cose già scritte, sia da lui che da altri. Dottorale ma interessante inoltre tutta la dietrologia della successione al Ducato di Mantova e delle relazioni tra le potenze riguardo all’assedio della cittadina piemontese. Nelle discussioni sulle credenze fisiche del Seicento, piene di errori ma con alcune venature di verità e intuizioni, si ha la perenne sensazione di assistere non a un vero dialogo sui massimi sistemi tra uomini di quel secolo ma a una recita scolastica di fine anno, pedagogica e programmatica, che illustra il sunto di quelle peregrine idee. Padre Caspar è allora non soltanto l’Intruso (un giorno il Dio della letteratura dovrà rendere capitale il peccato dell’espediente della maiuscola di cui troppi scrittori abusano) della Daphne ma soprattutto del romanzo. Andando oltre la fascinazione dello scrittore per le figure religiose, il padre gesuita è infatti portatore insano delle rigide posizioni teologiche della Chiesa di ogni tempo. Insano poiché troppo schematico, troppo intenzionale, in una misura così colma che nemmeno il macchiettismo poliglotta di cui lo colora Eco lo salva dalla prevedibilità. Il professore rintraccia nel secolo XVII i geni vitali del carattere umano. Lo spirito avventuriero, perfino profetico di cui si ammantano gli esploratori di quell’epoca durante la ricerca di terre sconosciute da consegnare ai loro sovrani poiché ne possano far sfoggia nelle loro corti, diventa in particolare l’ossimoro più luminescente dell’ambigua grandezza umana. L’isola del giorno prima diventa allora il romanzo dove l’ossimoro passa da figura retorica per eccellenza della letteratura del periodo (si vedano alcuni esiti verticistici a cui giunge l’autore per mano del protagonista Roberto de la Grive quali: «Eppure m’inorgoglisco della mia umiliazione, e poiché a tal privilegio son condannato, quasi godo di un’aborrita salvezza: sono, credo, a memoria d’uomo, l’unico essere della nostra specie ad aver fatto naufragio su di una nave deserta».) a chiave primaria di decodificazione del Grand Siècle europeo. Il barocco come espressione grandiosa delle potenzialità umane: da una parte gli inarrivabili esiti dell’architettura, della pittura, di cosmogonia e filosofia ma dall’altra la progressiva degenerazione verso le paludi del manierismo, delle sinestesie viste con orecchie ormai mute, degli orpelli vacui di “gente senz’anima” come li apostrofa Eco ironicamente nell’epilogo.

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Anche il sincretismo di svariate teorie diventa allora nozionismo esotico fine a sé stesso, nella perenne voglia di esibire i saperi più speziati e di mirabiliare i salotti aristocratici. Questa pratica è oggetto di una severa reprimenda da parte di Eco che sebbene la condanni dal punto di vista morale dall’altro lato se ne serve per i suoi giochi linguistici. In questo romanzo, infatti, più che altrove fioriscono termini e costrutti della lingua italiana ormai desueti che rallentano la lettura. Il confine tra glottologia e romanzo viene sovente varcato in una maniera così scoperta da rendere al contempo prolissa la nota terminologica e impossibile la partecipazione emozionale nei confronti delle disavventure di Roberto. Nella parte centrale ecco allora l’insistenza di alcuni divertimenti tipici del professore universitario: descrivere con il linguaggio ampolloso e ridondante del Seicento le eccentricità tropicali e far rintracciare al lettore smagato oggetti, animali e piante di quei ritratti policromi. In fondo è la tentazione adamitica di ogni scrittore che si rispetti: poter dare i nomi alle cose inventando e/o plasmando un linguaggio desueto. La ricerca del punto fijo e il mistero delle longitudini fanno da altare semantico per la più importante delle tesi relativiste dello scrittore: la ricerca da parte dell’uomo, destinata al fallimento, di un principio primo che giustifichi la sua esistenza. Se la verità è al massimo un reticolo dove ogni snodo si giustifica da solo, è doveroso comunque continuarne la ricerca anche al costo di commettere barbarie come quella, presente nel romanzo, di mantenere aperta la ferita di un cane pur di trovare l’antimeridiano di Greenwich. Nel finale ancora di più Eco sembra abbandonarsi alle sue ossessioni: Roberto ha un sogno in cui compare pure Giuda che cerca di redimersi dalla sua colpa. Quel tradimento è però obbligatorio affinché Gesù possa subire la Passione ed elargire la successiva Redenzione ai cristiani. Tema di innegabile fascino che viene toccato tangenzialmente e per soprammercato in un accanimento quasi sadico nel delirio pre-morte del protagonista. Il libro termina con un capitolo di verosimile e dotta ricostruzione storica del rinvenimento delle carte di Roberto, scomparso senza lasciar traccia in mare. Così, ancora una volta, il professore schiaccia il narratore e la cultura sottomette l’arte al suo giogo. Catena per catena, vado a rileggere quelle stilistiche di Seminario sulla gioventù, molto più ludiche.

P.S. Naturalmente l’Isola è l’utopia, definita con un bell’ossimoro “irraggiungibile prossimità”. In questa recensione non ho mai citato tale tematica per sua svenevolezza fintamente poetica.

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