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L'isteria della socializzazione: l'ipersocializzazione.
Creato il 02 ottobre 2013 da Coloreto @LoretoCoNo. Non saltate sulla sedia. Non mi riferisco di certo a teorie deliranti di Theodore Kaczynski. Tanto meno non ho la qualità e parimenti la competenza, o la voglia, di discuterne in termini di sociologia o di psicologia. Assolutamente no. Se ho deciso di parlarne, è perché mi ha molto incuriosito una discussione con un caro amico. “Pietro, immaginati di trovarci in altri tempi. Considerato che le nostre comunicazioni sono così serrate, hai una vaga idea di quanta corrispondenza avremmo generato?”. Una domanda banale che trascinò una domanda che banale non fu per nulla: “nulla di particolare: se avessimo dovuto concentrare tutto nello spazio di una lettera, saremmo stati di certo più concisi e accorti”.
Più concisi e accorti. Questo vuol dire che, concisi e accorti, non lo siamo. Non lo siamo perché non abbiamo bisogno di esserlo. Perché non siamo legati allo spazio di una lettera e, continuando, potremmo dire che non abbiamo bisogno dello spazio di una lettera perché i supporti che attualmente usiamo per comunicare (sms, chat, socialmedia, servizi Messenger) non hanno uno spazio specifico o un limite al riguardo. Il ché di certo è un qualcosa di molto utile in quanto permette una comunicazione molto più completa. O, forse, sta modificando la stessa natura della comunicazione? O forse abbiamo abbandonato l'esigenza prima, essenza della comunicazione: far pervenire un messaggio? Se non abbiamo uno spazio a delimitare il contenuto, il messaggio cambia. Perché non è più un messaggio e un solo processo. Il processo è continuo e il messaggio smette di essere unico ma diventa anch'esso continuo. Alzi la mano o la abbassi sulla tastiere, chi, almeno una volta nelle sue esperienza di blogging, chatting o qualsivoglia parola vogliamo usare per definire il mezzo che usiamo, non si sia ritrovato a dire più di quanto voleva dire.
A volte, anche incredibilmente di più. Più di quanto, in effetti, sia utile comunicare. E questo si ripercuote immediatamente su ogni esperienza social-multi-mediale cui quotidianamente diamo vita. Un esempio su tutti, le chat. La chat ti permette di inviare quanti messaggi vuoi, creando una discussione pressoché infinita. L'unico limite alla finitezza è la noia. Dell'uno di comunicare o dell'altro di ascoltare e viceversa. Non sono i soli esempi di come la mancanza di finitezza abbia portato a quella che, forse con eccessiva presunzione, ho indicato come Iper-socializzazione. Facebook e twitter. Due “fenomeni” che andrebbero largamente studiati. Facebook prima con l'aprire il mondo alla comunicazione smodata e alla mania dilagante di comunicare ad altri un qualcosa. Spersonalizzare un messaggio, facendone un messaggio universale. Non specifico. Non caratteristico. Eppure la comunicazione esiste ancora, si è adattata ad un cambiamento tanto suadente quanto subdolo. Prima, era una questione di contenuti e di soli contenuti. Condividevi un pensiero e i tuoi amici potevano leggerlo, forse anche commentarlo. Poi si poteva condividere una canzone o magari un qualcosa che parlasse di noi. Anche lì, il messaggio era verso tutti e in definitiva verso nessuno. Poi il gran salto di qualità, comunicare il quando, il come, il con chi e il perché. Informazioni. Messaggi. Messaggi che iniziano con un “ciao” e non finiscono. Perché in realtà ogni singola comunicazione è un messaggio impacchettato e isolato dal resto. Manca di organicità. Twitter. Servizio di microblogging. Micro si, perché i caratteri a disposizione sono 140. Difatti, le comunicazioni sono stringate, essenziali, concise. Twitter prova a salvarsi e salvarci dall'abisso dell'ipersocializzazione ma proprio perché i caratteri a disposizione sono 140, ed è un aggiornamento continuo da fonti, media, giornalisti, qualsivoglia, siamo invogliati a produrre più micromessaggi continui, annullando così il confine del conciso. Perché inviare 10 messaggi o tweet ( cinguettii, appunto per marcare la velocità di somministrazione del messaggio ) da 140 caratteri, alla fin fine produce il non dir nulla. Vi stare ancora chiedendo perché iper-socializzazione, però. Perché ognuno di noi, nella propria virtualità social-multi-mediale è ormai portato a produrre più messaggi di quanti non servano nella comunicazione del contenuto. A quel punto, però, i messaggi, non specificano o riportano più dettagli del contenuto stesso ma sono indipendenti e ne impoveriscono la resa su chi ne legge. Questo, a sua volta, produce un mutamento sostanziale nel tipo di comunicazione che instauriamo a livelli sempre più crescenti.
Ultimo punto: perché isteria. Un termine forte di certo. Isteria della socializzazione. Non perché sia la socializzazione da sola ad essere isterica, quanto perché, essa stessa, rende isterici chi iper-socializza. Perché? Mi chiederete.
Vi rispondo riportando un semplice elenco di sintomi che definiscono l'isteria, trovato su un portale più o meno valido come wikipedia: fenomeni amnestici, stati crepuscolari, stati acinetici, stati deliranti, stati di depressione ed euforia, facilità alla menzogna, mitomania, simulazione, labilità, immaturità emotivo-affettiva, suggestionabilità, instabilità, irregolarità nella vita sessuale, infantilismo e per finire egocentrismo.
Ora, prendete carta e penna, disegnate una bella tabella e in ogni riquadro dell'indice, aggiungere questi sintomi. Bene, collegatevi su facebook. Provate a segnare quanti di questi sintomi sono presenti. Vi stupirete. Filippo M. R. Tusa*immagine tratta da images.google.it
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