Da tanto, tantissimo tempo cerco di trovare il giusto taglio da dare ad un articolo riguardante il complesso rapporto fra la scuola, il mondo del lavoro e la politica. Quello che mi preme è evidenziare l'ottica distorta che quest'ultima ha dei primi due e come le vittime principali di questa relazione perversa siano in primo luogo i giovani. Probabilmente, però, il tema è tanto articolato e tanto sostenuto che un modo giusto di presentarlo non esiste, con buona pace di chi si erge periodicamete a giudice delle umani sorti.
Mi sono decisa a farlo ora, sulla scia delle ultime dichiarazioni provenienti dal mondo della politica, cioè da quel settore appartato dell'esistenza che ricorda gli intermundia in cui il poeta latino Lucrezio collocava gli dèi, del tutto estranei all'esistenza dei comuni mortali.
Dopo le illuminate affermazioni di Tommaso Padoa-Schioppa sui giovani bamboccioni che non si danno una mossa ad uscire dalla casa dei genitori e quelle altrettanto lungimiranti dell'ex viceministro del Lavoro Michel Martone sulla vergogna di chi si laurea fuori corso, la settimana scorsa la carrellata delle genialate sugli under-trenta si è arricchita di una nuova perla del ministro Giuliano Poletti, che ha affermato che laurearsi a ventotto anni con 110 e lode non serve a nulla (anzi, «a un fico», ché l'ars orandi governativa non rischi di elevarsi troppo) e che è meglio conseguire il titolo a ventuno con 97.
Ora, a parte il fatto che, se un giovane si iscrive all'università appena conseguito il diploma, ha diciannove anni e che un corso di laurea non si può concludere anticipatamente qualora uno studente abbia terminato anticipatamente gli esami (altrimenti smette di pagare le tasse), difficilmente alla verde età di ventun'anni si consegue un titolo; ma ammettiamo che un nato negli ultimi mesi dell'anno riesca ad approfittare della prima sessione utile e prima dello scoccare dei ventidue conquisti l'agognato titolo... esattamente cosa viene offerto a costui? Un sistema occupazionale in cui, non essendoci pensionamenti, non ci sono nemmeno nuove assunzioni; una sequela infinita di proposte di stage gratuiti e master costosissimi; colloqui di lavoro in cui vien fatto pesare il possesso di un titolo triennale che non può competere né con un diploma (sei troppo specializzato, quindi non ti assumo), né con una laurea magistrale (se devo prendere un laureato, tanto vale che abbia la qualifica più alta nello stesso settore).
Il mondo del lavoro - forse Poletti & company ancora non l'hanno capito, oppure fingono di non saperlo perché presi dalla loro filosofia del sorriso - non è esattamente lì che aspetta i neolaureati e che premia la loro «voglia di arrivare» (che poi mi sembra una versione grottesca di «Stay hungry, stay foolish», coerente con la scelta del primo ministro di parlare di semplificazione mostrando un I-phone). Basterebbe uno sguardo alle offerte di lavoro per capire che le figure più ricercate sono quelle di neolaureati con i requisiti per ottenere uno stage in luogo di un contratto vero e proprio, di diplomati e laureati con esperienza pluriennale, quindi non certo ventunenni, ma nemmeno troppo esperti, perché altrimenti tocca riconoscere l'anzianità di servizio.Un lavoro, di questi tempi, non si ottiene con la sola forza di volontà: ovviamente non si è per questo giustificati a farsela mancare, ma non sarà un dato anagrafico né una differena di tre punti nel voto di laurea a fare la differenza. Purtroppo conta molto di più quanto si ha alle spalle e, agli occhi di chi assume, più che un voto è l'università di provenienza a determinare la stima con cui si guarda ad un candidato, e sappiamo bene che, nella percezione comune delle classi dirigenti politiche ed economiche esistono atenei di serie A e altri di serie B, il che è a dir poco inammissibile.
Non voglio poi tornare sull'ignoranza di queste dichiarazioni in merito alla situazione dei fuori-corso o di chi si laurea dopo i trent'anni, perché chi ha un minimo di consapevolezza di come sia la vita della gente comune sa benissimo che non per tutti è possibile studiare quando lo vorrebbero, e che molti sono costretti a mantenersi gli studi lavorando, con la conseguente dilatazione dei tempi del percorso. Poi c'è anche chi non ha voglia di impegnarsi, fra gli studenti come fra i lavoratori, ma generalizzare a scapito di chi insegue con determinazione e sacrificio i propri obiettivi non è quanto si possa permettere di fare un rappresentante del governo, soprattutto se neanche ha una laurea o se mammina e papino gli hanno pagato studi costosissimi nelle università più prestigiose del mondo. Un po'di decenza, per favore: a star zitti quando non si ha nulla di intelligente da dire non si fa altro che una bella figura.
Quindi colpevoli i giovani che a ventun'anni non sono già belli e pronti a farsi spremere da un datore di lavoro che li metta a sgobbare gratuitamente o a pagarsi le spese per la formazione. E colpevoli se devono restare all'università più a lungo non per elemosinare un 110 e lode in luogo di un 97 (che, a sentir Poletti, sembra quasi un mezzo fallimento, tuttavia accettabile se evita l'onta di dover studiare anche solo un anno in più), ma per la necessità di lavorare mentre studiano, come già aveva detto Martone.
Ma colpevoli anche i giovani che, durante gli studi, non hanno lo stimolo a scoprire il mondo, regalandosi un Erasmus dietro l'altro, ché andare all'estero è fondamentale, anche se mesi oltre confine fossero interamente dedicati alla bisboccia delle notti universitarie e anche se ciò comporta ulteriori costi.
E colpevoli quelli che scelgono percorsi che richiedono lunghi periodi di studio, come il corso di laurea in medicina o quello di specializzazione per insegnanti: a nulla è valso che io e tanti coetanei avessimo voglia di completare la formazione alla svelta, laureandoci nei tempi previsti e preparandoci ai corsi di ammissione per la specializzazione, dato che il Miur si è preso tutta la calma del mondo per avviare i nuovi percorsi di abilitazione alla docenza dopo anni di chiusura delle Ssis, per farli partire a singhiozzo, per avviare le convocazioni dei supplenti precari o pubblicare bandi di concorso. E al termine di tutto questo, come già detto, il Ministero dell'economia non si degna nemmeno di pagare gli stipendi. Oltre alla fame di arrivare, a impegnarsi si rischia di fare la fame vera e propria. Questo Poletti lo sa?Ma il bello è che, in perfetta sincronia con le messianiche dichiarazioni del ministro al Job&Orienta di Verona, venivano diffusi i dati sul basso numero di laureati nel nostro Paese, come sempre sul fondo delle classifiche fra le nazioni più sviluppate per livello medio degli studi.
Quindi i giovani non solo devono laurearsi, ma, per serbare intatto l'onore, devono farlo prima dei ventidue. Perché se uno si limita al diploma - pare - non ha fame di arrivare. Ma se ha fame di arrivare e si specializza, diventa troppo specializzato. Eppure se ci si laurea si entra troppo tardi nel mondo del lavoro (eh, a ventitré è ormai ora di pensione, no?), mentre se non ci si laurea ci si entra troppo presto, ammesso che ci si entri davvero.
Allora, ci mettiamo d'accordo? Vogliamo giovani specializzati in culla, per mandarli a fare gli stagisti subito dopo la perdita dei denti da latte? O vogliamo che tutti prendano la laurea prima che spunti il primo pelo di barba? Siamo nel Paese dei controsensi: per dirla con le immagini popolari care a Poletti, si vuole la botte piena e la moglie ubriaca.
Con lo sconcerto di fronte a tanto semplicismo mentale mi fermo, preannunciando già un successivo post dedicato ad un altro aspetto della questione, che mi è ancora più caro di quello appena descritto, ma merita uno spazio autonomo.
C.M.Articolo originale di Athenae Noctua. Non è consentito ripubblicare, anche solo in parte, questo articolo senza il consenso del suo autore e senza citare la fonte.