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L’Italia che ce la deve fare

Creato il 13 agosto 2012 da Fabio1983
La chiave di lettura che Aldo Cazzullo dà sul Corriere della Sera non è da ritenersi così grossolana. Anzi. Altra questione – e su queste pagine nel mese di giugno ci siamo divertiti non poco a fare le pulci a un certo modo di fare giornalismo – è lanciarsi in improbabili paragoni calcistici-economici, come se una eventuale vittoria della Germania all’Europeo di calcio potesse decretare la superiorità teutonica o il momento non favorevole di paesi quali Grecia, Spagna (campione) e Italia (vicecampione). Lo sport nel suo insieme, al di là di un ragionamento sul mero risultato agonistico, può dire molto sullo stato di salute di una nazione. E l’Italia che appare l’indomani della chiusura dei giochi olimpici di Londra, per dirla con Cazzullo, è a due velocità. Da tempo soffriamo di ritardi infrastrutturali (gli impianti per praticare determinate discipline non sono delle migliori) a cui rispondiamo con l’eccellenza del singolo, il sacrificio e la devozione che agli italiani non mancano nel momento della necessità. Ma è troppo poco per competere con le “grandi” e “nuove” potenze, come ad esempio la Cina. Quello che manca al nostro Paese – e tanto lo sport quanto la cultura sono lì a ricordarcelo quotidianamente – è il senso del rinnovamento, dell’innovazione. Concetti che dovrebbero essere alla base di un Paese in continua evoluzione. Ecco, gli italiani si sono fermati. Siamo costretti irrimediabilmente a inseguire gli altri. Lo facciamo in tutti i settori: dall’economia alle tecnologie non comprendendo fino in fondo quanto i diversi ambiti siano in verità interdipendenti e non un esclusivo campo di competenza per poche e selezionate élite. Siamo indietro per ciò che riguarda l’obiettivo dell’agenda digitale (tra i pilastri del secondo pacchetto del governo per la crescita) e abbiamo perso terreno – anche per le inefficienze delle istituzioni – in uno dei settori in cui potevamo vantare una discreta leadership: la green economy. E ancora: il caso Ilva di Taranto è sintomatico dell’inerzia a cui abbiamo assistito troppo a lungo. Rinvii e negligenze hanno permesso lo sviluppo di un conflitto di interessi senza eguali nella grande acciaieria: tutela dell’ambiente e della salute da una parte, diritto al lavoro dall’altra. E il secondo caso agostano, quello della compagnia aerea Windjet in fallimento che secondo Vito Riggio, presidente dell’Enac, è il chiaro segno di un problema molto più vasto (“È a rischio l’intera aviazione italiana”, ha chiosato in un’intervista al Messaggero). Non siamo un Paese da buttare, ma va impedito che a farlo siano le future generazioni. E c’è un solo modo per tornare a crescere e scrollarsi di dosso l’alone di inadeguatezza che ci trasciniamo dietro da anni: ricominciare a fare cose che un tempo erano la nostra prerogativa, innovando e obbligando gli altri a prenderci come modello. È l’unica opportunità che abbiamo di essere competitivi in un mondo sempre più ostico e in crisi perenne.
(anche su T-Mag)

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