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L’Istat fotografa l’Italia ma non c’è da rasserenarsi. C’è stato un periodo in cui chi parlava di crisi era considerato il solito pessimista. Fra il 2009 e metà 2010. Si pensava davvero ad una ripresa dell’economia. Se la crisi del 2008, infatti, si era riverberata in Italia seguendo gli stadi patologici del contagio da virus subprime, quella del 2010-2011 è nata come una recessione endogena. Endogena ma non limitata al nostro Paese, che per come stava se la poteva pure cavare. Si è piegato, piuttosto, il sistema Europa. Un sistema entrato in decadenza a causa dell’evidente scollamento tra teste che assumevano le decisioni di politica economica e teste che si facevano carico della politica interna.
Da un lato, il Merkozy e la BCE, dall’altro un’azione debole delle istituzioni comunitarie a fronte di leader nazionali indispettiti e in perenne caduta di consenso. In questo quadretto familiare, l’Italia è stata messa fra le pecore nere, anzi tra i PIGS. E il supercontrollo degli operatori finanziari è risultato un potente boomerang. Più Moody’s ci declassava, più i titoli perdevano quotazioni, più la fiducia degli investitori diminuiva e più Moody’s ci rideclassava ancora. Oggi l’Istat fa una fotografia rigidamente aritmetica dell’Italia. I giudizi sono pochi, ma tutti politicamente antisettici. Bisogna fare di più. Con un po’ olio di gomito l’Italia ce la può fare a rialzarsi, ma serve davvero l’impegno di tutti.
Com’è questa fotografia? È il ritratto di un’Italia impoverita e lasciata inerme contro le aggressioni della più spietata speculazione. La crisi del debito sovrano e il rallentamento della domanda a livello internazionale hanno inciso in modo notevole sul sistema delle imprese. Le incertezze sulle prospettive di crescita hanno fatto sì che le pmi rallentassero i loro investimenti sul futuro. Questo ha determinato una pericolosa stagnazione, provata anche dal basso indice di fiducia delle imprese sul sistema economico (istat economic sentiment indicator).
La contrazione degli investimenti è stata influenzata in larga misura anche dal credit crunch, l’irrigidimento nella concessione di crediti da parte delle banche. Considerato, infatti, l’accentuato «nanismo» del nostro tessuto produttivo, l’accesso al mercato dei capitali è stato, ed è tuttora, un miraggio per molte imprese. Gli aiuti bancari rimangono l’unico canale da cui trarre i finanziamenti necessari a intraprendere o proseguire determinate attività. Peraltro, se l’impresa riesce ad ottenere un finanziamento, le condizioni a cui le viene concesso sono diventate sempre più onerose.
L’accesso al credito assume un ruolo rilevante soprattutto nei casi in cui le imprese sono messe in seria difficoltà dalla proroga dei termini di pagamento delle pubbliche amministrazioni, che non adempiono in tempo alle obbligazioni assunte. Il blocco dei crediti si somma ad un’altra variabile. L’aliquota dell’Iva, passata al 21% dopo la finanziaria dello scorso settembre, ha innescato una spirale inflazionistica che ha portato all’aumento dei prezzi e al calo dei consumi. I settori più colpiti sono stati quello energetico e quello alimentare. Il primo, con un impatto addirittura dell’11,3%. Così, anche i salari hanno perso il loro potere d’acquisto e questo si è, ancora una volta, ripercosso sulla produttività generale delle imprese, che non è riuscita a ritornare ai livelli pre-crisi del 2008. Come riprendersi dalla stoccata? Non certo con decreti in cui le parole «sviluppo» e «crescita» sembrano solo mantra ripetuti all’infinito.
Servono misure concrete, partecipate e pensate. Servono il federalismo, la riforma della Costituzione, del mercato del lavoro, delle regole del sistema bancario, delle pensioni. Sono tanti tasselli di un grande puzzle. Se ne parla da quarant’anni ormai. Chissà se adesso, dopo la scossa di queste ultime mezze elezioni, non sia la volta buona per passare dalle parole ai fatti.