La presente fase storica mondiale si caratterizza per il moltiplicarsi delle situazioni di urto tra sfere egemoniche, favorite dalla fine dell’unipolarismo americano. L’America non è più baricentro globale ma resta perno solidissimo, e tutt’altro che in decadenza, di una vasta area planetaria, ancora più estesa della sua zona d’influenza esclusiva, quella atlantica.
Gli Usa sono sempre in grado di proiettarsi ai quattro angoli del pianeta ma i costi delle sue operazioni strategiche, tanto politiche che militari, crescono esponenzialmente perché altri attori rendono più complicate le operazioni di penetrazione in determinate zone, ritenute decisive per regolare le future “questioni” tra le parti.
Il nostro tempo è, dunque, caratterizzato da un incipiente multilateralismo, inaugurato dall’emergere e dal riemergere sulla scena globale di potenze concorrenti dell’ “impero” statunitense. Non è ancora una competizione frontale tra i contendenti, in quanto la disparità delle forze in campo e i differenziali bellici giocano a vantaggio di Washington, eppure i segnali parlano di una prossima intensificazione delle diatribe tra i giocatori che agiranno meno velatamente su terreni via via più contigui alle proprie orbite di pertinenza.
La Cina e la Russia sono certamente due esempi cogenti della nuova configurazione geopolitica che va affermandosi da qualche decennio. Dicevamo che, allo stato dell’arte, sembra più corretto parlare di multilateralismo, piuttosto che di multipolarismo, proprio perché la nazione predominate, anche se non è più centro regolatore del sistema mondiale (le crisi istituzionali e finanziarie di questo periodo discendono proprio da tali circostanze) resta capace di intervenire quasi ovunque, senza poter però esercitare una funzione ordinatrice assoluta. Accettiamo, pertanto, in questa sede la distinzione teorica e terminologica lagrassiana in merito ai due concetti testé nominati. Il multilateralismo caratterizza una fase in cui i ruoli e gli scopi dei competitors geopolitici sono pesantemente condizionati dallo squilibrio dei rapporti di forza che avvantaggiano una formazione in particolare (e i paesi direttamente ed indirettamente subordinati ad essa), mentre il multipolarismo segna una tappa successiva in cui i poli accorciando le distanze tra essi, sotto vari aspetti (economici, militari, ecc. ecc.) si confrontano più serratamente per la preminenza monocentrica. Quando il multipolarismo arriva alle sue estreme conseguenze si parla più correttamente di policentrismo. Riassumendo, possiamo dire che nel multilateralismo ‘la stessa potenza predominante (diciamo meglio: i suoi centri strategici in auge, di cui il Presidente è la semplice personificazione, senza poteri effettivi se non di facciata, perché se volesse fare di testa sua sappiamo che fine fa) preferisce “innaffiare” abbondantemente il terreno onde renderlo paludoso e viscido; essa ha appunto, per la sua maggior forza (militare, che non significa soltanto bellica), i migliori “natanti” per navigare alla bell’e meglio nel pantano’; mentre nel multipolarismo (e policentrismo) si verifica quanto accaduto durante il disfacimento dell’impero britannico ‘La cosiddetta epoca dell’imperialismo [fine ottocento inizi del novecento] è stata una fase storica policentrica; credo sia meglio usare questo termine più neutro perché quello di imperialismo è troppo abusato, si è sovraccaricato di significati puramente ideologici e soprattutto di un numero enorme di sensi ormai non più controllabile. Ogni volta che un paese predominante (come sostanziale centro del mondo) entra in declino, in quanto potenza non semplicemente economico-finanziaria ma soprattutto politica e militare, si entra in una fase multipolare e poi policentrica, in cui un certo numero di formazioni particolari (in genere paesi, nazioni) lottano per affermare una nuova preminenza monocentrica. …Quando si esaurisce la preminenza centrale di un paese, che creava l’impressione di un minimo di equilibrio mondiale (pur sempre attraversato da conflitti minori), prende avvio un tumultuoso processo di scontro tra un certo numero di formazioni dotate di particolare potenza (denominate per brevità potenze) che, in linea generale, porta nel sistema capitalistico uno specifico accoppiamento: fase altalenante di crescita e decrescita economica unita ad intenso sviluppo nel senso della trasformazione dei rapporti e configurazioni sociali (articolazione in vari gruppi sociali fra loro in conflitto di tipo sia orizzontale che verticale)’.
Stante questo quadro di oggettive trasformazioni geopolitiche assisteremo, nei prossimi anni, a grandi scosse telluriche nelle alleanze mondiali e repentini rivolgimenti di fronte, con nazioni e gruppi politici che si ricollocheranno sullo scacchiere planetario, cercando di avvantaggiarsi della situazione e rischiando di rimetterci pesantemente in caso di passi falsi. L’Italia è tra i paesi che, per posizione geografica e situazione politico-sociale potrebbe ritrovarsi a cogliere (o mancare) occasioni importanti, sprofondando nella sentina della storia o risollevando, finalmente, le sue sorti, oggi non proprio “magnifiche e progressive”. Come scriveva Il Foglio qualche giorno fa: “L’Italia, linea di demarcazione tra poderosi campi di forza, è teatro di un plot elettrizzante. Sulla penisola insistono quattro grandi forze esterne: migrazioni e risorse prime dall’Africa; petrolio e gas dalla Russia; soldi crescenti dalla Cina; basi militari dagli Stati Uniti. E’ la conferma che Roma è nella scomoda posizione di chi si trova sul punto di tangenza di più placche geopolitiche. Condizione di paese contendibile che fa dell’Italia il banco di laboratorio geopolitico in cui si misurano – e si scontrano – due diversi paradigmi dell’ordine mondiale”.
Chi saprà sfruttare queste opportunità ai vertici della classe dirigente italiana? Non i personaggi attualmente in auge che sacrificano la politica estera nazionale (o meglio la abbandonano alla mercé di alleati voraci e prepotenti) all’ennesima bagarre su un inutile sistema elettorale o alla svendita degli asset di stato per rimpinguare e rivuotare le casse pubbliche. Ci vorrebbero uomini all’altezza dei tempi ed, invece, ci ritroviamo, coi tempi strettissimi, in mano a leader nanerottoli che danno il meglio di loro stessi quando stanno fermi e zitti. L’unica (non) azione intelligente del nostro Governo, in materia diplomatica, è stata, infatti, la mancata presa di posizione sul genocidio armeno che ha preservato le nostre buone relazioni con Ankara. Ovvero, costoro fanno bene solo quando non fanno niente, mentre non si contano i danni causati al paese dalle loro azioni sconsiderate, partendo dall’India (che ha praticamente espulso Finmeccanica da ogni business) e finendo alla Russia (dove in virtù delle sanzioni un interscambio che sfiora i 27 miliardi potrebbe volatilizzarsi). Siamo piuttosto sfiduciosi.
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