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L’italiano nei telefilm americani: alcuni esempi

Creato il 24 febbraio 2015 da Temperamente

In tavola, appetitosa e fumante, una bella pizza; in sottofondo la melodia agrodolce di una canzone napoletana; fuori alla finestra, la sagoma illuminata del Colosseo. Una sfilza gratuita di stereotipi, dite? Come darvi torto; ma spesso è proprio gratuitamente stereotipato il modo in cui i vari popoli della Terra vengono dipinti gli uni dagli altri. L’Italia, naturalmente, non fa eccezione: mangiatori di pizza, suonatori di mandolino, seduttori ruspanti, un po’ ignorantelli ma in fondo tanto simpatici, gli italiani nel mondo godono dei fastidiosi cliché che tutti conosciamo.
D’altro canto, così come le imitazioni sono da considerarsi il successo di qualcosa o di qualcuno, possiamo guardare alle dosi di italianità sparse un po’ ovunque oltre i nostri confini come al riconoscimento dell’eterno fascino esercitato dal nostro Paese.

Parte di questo invidiato bagaglio culturale è, ovviamente, anche la nostra lingua, che dai tempi di Dante diviene nel resto del mondo simbolo di raffinatezza e cultura con i suoi suoni peculiari, la sua sintassi a volte aggrovigliata, quella cadenza musicale che fa tanto esotico, mediterraneo.
Ecco che allora diventa una tentazione irresistibile inserire un tocco italiano in un prodotto di tutt’altra origine; ma i risultati finali di un’operazione del genere possono essere decisamente inaspettati.

In questa puntata, quindi, passeremo in rassegna alcuni telefilm americani, tutti molto celebri e seguiti, che toppano alla grande quando si tratta di omaggiare il nostro Paese; senza che, naturalmente, gli spettatori americani abbiano fiutato il disastro. Dunque armatevi di una piccola dose di irriverenza e cominciamo!

sigla desperate housewives
Desperate Housewives – I segreti di Wisteria Lane (2004-2012)

Le vicissitudini delle quattro casalinghe disperate sono ben note anche al grande pubblico italiano; fra intrighi e tradimenti, tanti amori e una caterva di omicidi impuniti, la serie tv americana ha tenuto banco per otto stagioni.

La puntata in questione è la numero 10 della quinta stagione: nel tentativo di riappropriarsi di un cimelio di famiglia venduto per errore, la casalinga disperata Gabrielle cerca di far ragionare il nuovo proprietario dell’oggetto, un uomo d’affari italiano. La conversazione coinvolge anche l’assistente del riccone, che fa da interprete durante la contrattazione; ed ecco come si svolge l’incontro:

Gabrielle: «So you see, it belonged to my husband’s grandfather, and if I don’t get it back, I’m telling you, I’m gonna be in the crapper!»

(mia traduzione: «Quindi vede, apparteneva al nonno di mio marito, e se non me lo riprendo, dico sul serio, sono nella merda!» (in realtà, “crapper” è un sinonimo scurrile per “gabinetto”, intraducibile in italiano).

L’interprete del telefilm allora traduce:

«Questo è un cimelio de familia, se questa segnora non lo ritrove finirà nel… crapper».

Il “crapper” non tradotto passi. Ma la coniugazione errata del verbo “ritrovare” inizia già a far sorridere lo spettatore italiano; per non parlare di “familia” e “segnora”, la cui pronuncia scorretta risente senza dubbio dell’influenza dello spagnolo, spesso indistinguibile dall’italiano all’orecchio dei nostri amici americani (sì, è terribile, ma è così).

È a questo punto, però, che chiunque abbia fornito la propria consulenza ai produttori del telefilm dà il meglio di sé; il sedicente uomo d’affari italiano, infatti, con una pronuncia da fare invidia alle migliori scuole di dizione, blatera:

«Per nulla».

Avrebbe potuto dire: «Assolutamente no», «Neanche per sogno», «Scordatelo», «Neanche morto», ma no, lui dice: «Per nulla». Che in questo contesto significa poco o niente.

Le battute che seguono sono sempre più imbarazzanti. In un italiano veramente da brivido, ma così spaventoso che Dario Argento avrebbe tranquillamente potuto inserirlo nei suoi film, l’uomo d’affari biascica che trova Gabrielle molto attraente; la sua assistente-interprete, allora, gli sconsiglia di proseguire, perché tanto lo sa “cosa stai pensanto”. Ma no, il riccone insiste, e in un ultimo slancio di violenza nei confronti della lingua italiana, farfuglia:

«Bala. Io vuolo che lei belli!»

… va bene, traduco: «Balla. Io voglio che lei balli!»

e poi aggiunge qualcosa che ho potuto solo identificare con “Diglielo”. Ma non ne sono sicura, eh!

Lo spettatore americano, nel frattempo, non ha la benché minima idea della tragedia linguistica che si sta consumando; ascolta, ignaro, lo scambio di battute che sembra tanto esotico e attende con trepidazione assieme a Gabrielle la traduzione dell’interprete. Quest’ultima, quindi, torna a rivolgersi in inglese alla casalinga e le traduce la richiesta del suo capo (inutile dire che questa improbabilissima italiana parla alla perfezione la lingua di Sua Maestà…o di Obama, che dir si voglia).

È qui che Gabrielle si alza in piedi, fiera e spavalda, e, in risposta all’arroganza del milionario che in quel momento è il rappresentante del nostro popolo, replica argutamente:

«Yeah… you know what? I’m gonna have to call a big fat “per nulla” on that one!»

(mia traduzione: «Sì… sa cosa? Mi sento di rifilarle un gran bel “per nulla”!»

Il tutto è molto arguto, certo, ma lo sarebbe ancora di più se significasse qualcosa; probabilmente gli sceneggiatori americani avranno pensato che “per nulla” fosse una sorta di espressione idiomatica calzante, ma si sono sbagliati. Naturalmente sorvoliamo sullo stereotipo dell’italiano farfallone arrogante.

fermo immagine covert affairs
Covert Affairs  (2010-2014)

In questa serie tv sullo spionaggio internazionale, le “ospitate” straniere sono all’ordine del giorno: tra mafiosi russi, francesi ammiccanti, tedeschi austeri e una quantità imprecisata di sudamericani, nella seconda stagione, episodio 4, salta fuori anche un italiano. Avvertenza: se l’esempio precedente vi ha imbarazzato molto, non continuate a leggere.

La protagonista del telefilm, la biondissima e intraprendente Annie Walker, agente della CIA, deve accompagnare un sospetto delinquente all’incontro con i rappresentanti di altri servizi segreti per una sorta di scambio. Il sospetto delinquente, che poi si scoprirà essere un coraggioso reporter che tutti vogliono morto per l’inchiesta che sta seguendo, è un italiano…che, ovviamente, si sente in dovere di parlare italiano nonostante conosca benissimo l’inglese. Eccolo quindi, in aereo assieme ad Annie Walker, mentre borbotta nella nostra lingua…cioè, in una lingua che dovrebbe essere la nostra.

Giornalista: «È proprio per questo che la gente odia la CIA. Tortura, assassinio e adesso questo. Adesso io».

E fin qui tutto bene. La pronuncia suona un pochino stentata alle orecchie dello spettatore italiano, ma tutto sommato passabile. C’è da aggiungere che, in sovrimpressione sul televisore del pubblico americano, scorrono dei sottotitoli in inglese, i quali traducono fedelmente quanto detto in italiano… fino al patatrac.

«… poi vieni a darmi un caffè americano, tanto vale bordo dell’acqua me».

State aggrottando le sopracciglia, lo sento. Tranquilli: non siete i soli.

Del tutto ignorante di cosa volessero dire gli sceneggiatori americani, ho rivisto di nuovo la scena, cercando di aiutarmi con i sottotitoli, ovvero quella che dovrebbe essere la traduzione in inglese del dialogo italiano, e leggo:

«Next you’ll be giving me American coffee, you might as well water board me».

Va bene. Respiro profondo.

Senza perdermi d’animo, sono andata su Internet e ho fatto un po’ di ricerche; poiché non sono un’esperta di torture, ci ho messo qualche minuto a capire che quel “water board” ha a che fare con la “pratica” del “waterboarding”. Il waterboarding è una tecnica di tortura che non starò qui a descrivere, ma che prevede la morte del malcapitato per annegamento. Il senso dell’orripilante traduzione americana, allora, era il seguente:

«… poi mi darete da bere caffè americano, tanto vale che mi affoghiate».

L’arcano è quindi svelato. In un tentativo di traduzione davanti al quale Google Traduttore avrebbe fatto tanto di cappello, gli americani hanno pensato che “board” si traducesse con “bordo” visto che suonano più o meno nello stesso modo e hanno seguito l’ispirazione del momento. Ma non è finita qui. Eh, no.

Impassibile di fronte alle chiacchiere dell’uomo che sta scortando, la brava Annie Walker decide di fare un po’ l’esibizionista e sfoggia l’italiano che ha imparato chissà dove (non vogliamo saperlo):

«Tutto posso offrirti un saccottino di peanuts».

I sottotitoli inglesi mi suggeriscono che la frase avrebbe dovuto essere: “Tutto quello che posso offrirti è un sacchetto di noccioline”.
Impressionato dalla performance linguistica della Walker, il giornalista esclama in inglese: «Parli italiano? Interessante…»

Sì, sì. Come lo parli tu.

Smallville  (2001-2011)

sigla smallville

L’ultimo, brevissimo esempio di questa panoramica arriva da Smallville, la serie-tv incentrata sulla vita di Clark Kent prima che diventasse Superman. Dieci stagioni, morti e resurrezioni a gogò e supereroi in ogni dove hanno accompagnato gli spettatori di tutto il mondo fino al 2011; e in tante puntate non poteva mancare un pizzico di italianità.

L’occasione la fornisce il cattivone Lionel Luthor, padre di quel Lex Luthor che ama mettere i bastoni fra le ruote al nostro Superman; l’uomo, che oltre a essere molto malvagio è anche molto ricco, ama farsi cucire abiti su misura… e qual è la patria di sarti e stilisti famosi in tutto il mondo, se non la nostra penisola?

Mentre Lionel è nel suo ufficio a prendere le misure con il suo sarto, sopraggiunge un visitatore e pertanto il cattivone è costretto a congedare l’italiano. In maniera del tutto gratuita, giusto per dare allo spettatore quel tocco di esotico che a volte fa così chic, Lionel ostenta il suo italiano:

«Scusiamo, per favore».

Imperturbabile, il sarto italiano risponde con accento sospetto: «Sì, signore Luthor» e ci basta questo per capire che la comparsa non è italiana, perché un italiano avrebbe detto “signor Luthor” e non “signore Luthor” con la voce stentata di chi si sta strozzando con dei popcorn.

Sottigliezze a parte, Lionel Luthor ce l’aveva quasi fatta, ma il 50% della sua battuta, quell’inspiegabile “scusiamo”, l’ha tradito; Google Traduttore, o per meglio dire Google Translate, ha mietuto un’altra vittima.

Il nostro piccolo viaggio tra gli strafalcioni da telefilm è giunto al termine; se da una parte gli omaggi che le serie-tv hanno voluto dedicare all’Italia ci lusingano, dall’altro non possiamo non essere un pochino divertiti dal modo curioso in cui l’hanno fatto.

C’è da dire che l’italiano è una lingua molto difficile e ricca di veri e propri “agguati” grammaticali: tra coniugazioni ed eccezioni varie, il nostro idioma si rivela essere molto più complicato di una lingua abbastanza lineare come l’inglese. Pertanto, se l’amore per l’italiano ci impone di non giustificare questi svarioni, la nostra generosità congenita ci suggerisce di provare un pizzico di comprensione nei confronti di chi si è cimentato nell’impresa.

A presto con la prossima puntata e se aveste qualche esempio da segnalare, non esitate a farlo!


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