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“L’itAliena in italiano: tre anni a NYC”, ovvero i pro e i contro del vivere all’estero, dal blog di Francesca Giuliani

Creato il 03 gennaio 2014 da Wally26
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The High Line Park (foto del Radicchio Avvelenato)

Gira che ti rigira, chi piu’ chi meno, noi espatriati finiamo spesso per porci le stesse domande e darci le stesse risposte. Non parliamo poi di noi espatriate romane, a cui dopo qualche tempo immancabilmente iniziano a mancare il “Cuppolone”, due passi al Gianicolo, una buona carbonara e la grattachecca agostana!

Che si tratti di Stati Uniti, Canada o Australia, per quanto possiamo godere di alcune dinamiche e liberta’ che in Italia vengono negate, specialmente a noi “giovani”,  rimane sempre quel filo che ti lega a casa e col tempo ti accorgi che puo’ trasformarsi in una corda a cui puoi rimanere impiccata oppure condurti alla salvezza. Come dicevo “chi piu’ chi meno”, perche’ conosco anche espatriati che mai e poi mai tornerebbero in Italia, ma  lasciatemelo dire sottovoce e con una punta di campanilismo: non sono romani!

In questo bel post di Francesca Giuliani, giornalista venticinquenne romana che vive e lavora a New York, ecco bene esposte queste problematiche. Leggete anche il commento e la risposta, che sono ancora piu’ esaustivi;

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“Sono arrivata qui esattamente oggi, esattamente poche ore fa, nel 2010. Era un sabato, Matthew era a casa a non fare nulla e ci siamo messi a chiacchierare. Portava una maglietta a righe a maniche lunghe che ora mi è estremamente familiare — l’avrò riposta nel suo armadio o buttata nel cesto dei panni sporchi centinaia di volte. Abbiamo chiacchierato di Roma, degli italiani, della sua esperienza a Roma e del mio inglese non accentato (beh, ogni tanto quando mi innervosisco l’Italia si fa sentire, ma ok).

Di valigia allora ne avevo portata una soltanto, dovevo restare solo 90 giorni e sebbene avessi intenzione di instaurare una relazione più duratura con questa città, nella quale pianificavo di tornare per studiare giornalismo, non avrei mai pensato di avere la vita completamente cambiata quel 9 ottobre lì. O meglio, un presentimento ce l’avevo, forse un desiderio, ma non avevo idea.

Di tempo ne è passato parecchio e ovviamente di cose ne sono successe a bizzeffe. Ricordo che i primi giorni tentavo in vano di aggiornare il mio vecchio blog con regolarità. Scrissi che detestavo i blog di gente che andava via, a fare qualcosa altrove per un po’, e smetteva di raccontare e di raccontarsi. Sapevo che proprio in queste circostanze si vivono esperienze che sarebbero degne di essere trascritte, analizzate, ma poi mi è successo quello che succede a tutti: sono stata troppo presa da tutto quanto per potermi fermare a pensare. Anzi, di pensieri ce ne sono stati a tonnellate. È che a un certo punto scriverli tutti diventa impossibile, innaturale, forse inutile. In prospettiva, avrei piacere di rileggere quegli appunti mai presi, ed é forse per questo che ora sono qui.

Un’amica mi ha chiesto se il bilancio di questi tre anni passati in USA sia positivo. La domanda mi ha un po’ spiazzata: capisco che ci sia stato un cambiamento talmente radicale nella mia vita da poter giustificare una valutazione. C’è stato un prima diverso da ora, e uno dovrebbe essere in grado di fare un paragone. Il punto è che qui o là la vita è sempre vita, ed è difficile giudicarla. Almeno la propria. Forse ne ho lasciata passare quel tanto che basta per vedere più somiglianze che differenze, e da perdere quel distacco critico che permetterebbe effettivamente di soppesare i pro e i contro delle mie scelte.

Gli alti e bassi vissuti qui sarebbero stati diversi a Roma, ma ci sarebbero stati comunque. Avrei avuto più difficoltà a trovare lavoro e le risorse sufficienti a rendermi indipendente, ma avrei anche avuto la mia famiglia vicina (forse al completo, forse no), i miei amici, i miei luoghi. Dall’altra parte, ogni volta che vedo una foto di un tramonto romano postata da amici con quelle didascalie che ti fanno capire che basta una bella vista a metterti in pace col mondo, mi infastidisco molto: Roma è bella, ma non le si può perdonare tutto. In ufficio da me, uno dei miei capi ha 22 anni. Non è ancora laureato, ma è a tutti gli effetti un capo, sia per talento che per affidabilità, e la sua giovane età non entra neanche in questione se consideriamo il modo in cui il resto dell’ufficio si relaziona a lui.

Qui non ha importanza chi sei, quanti anni hai, e in una certa misura non importa nemmeno da dove vieni (ammesso che tu abbia tutte le carte in regola per lavorare legalmente): se sei capace, puoi fare. E non è che te lo lascino fare con lo sguardo paterno, con quell’attitudine di chi stuzzica un bambino a giocare con le costruzioni e si esalta quando il piccolo ne assembla alcuni a formare una casetta. No: qua i mattoni da usare sono veri, come le cose che devi costruire. Altrimenti avanti un altro.

In Italia non so più se sono i giovani a non trovare cose da fare perché non ce ne sono o perché non possono accedervi, o se il problema è che si prova a fare ma solo fino a un certo punto, perché purtroppo o per fortuna un tetto sulla testa lo si ha, e quindi nel frattempo si studia ancora qualche anno aspettando tempi migliori.

L’Italia la seguo e la capisco sempre meno: leggo cose, leggo di amici che cercano di fare cose, ma non sono certa che all’occasionale articolo sui giovani che si industriano corrisponda poi un supporto concreto da parte di qualcuno, della società. Ho perso il filo della politica, e mi trovo di tanto in tanto a dover rispondere a domande su Berlusconi, sui governi in crisi, senza sapere bene cosa dire. “Non è come sembra” non è una risposta sufficiente.

Qui in America sto facendo anche cose interessanti, e adesso sto lavorando per una società che ambisce a rivoluzionare il modo in cui si trovano le notizie. Qualche italiano ogni tanto mi contatta via email o su Linkedin, mi invita a conoscerlo e a scambiare idee sulla professione — quanti giri di messaggi e quanti aperitivi finiti allo stesso modo: vogliono tutti che tu scriva, nessuno è disposto a pagarti per farlo. Anche quelli dei giornali con la G maiuscola, o supposti tali, purtroppo non sono in grado di farti lavorare: perché non si può urtare la suscettibilità di chi viene pagato per fare il corrispondente (giuro) o perché anche quando ti conoscono e ti dicono che forse si può fare, dopo poco si dimenticano di te, che in fin dei conti non è che gli interessi così tanto — si bastano da soli.

Quando sento da mia madre notizie di giornali italiani che licenziano, che vengono scorporati, che vendono proprietà, che assumono ragazzi per torchiarli a stipendio minimo e risputarli fuori dopo pochi mesi, mi chiedo con che faccia ancora ci sia un ordine dei giornalisti che sostiene di tutelare la professione, quando invece di contenuto nuovo se ne scrive sempre meno e si rigurgitano cose prese qua e là, senza capirle veramente, senza sapere cosa succede nel mondo. Qui qualcosa la stanno facendo, e l’Italia sarà sempre in ritardo, sempre più spinta verso il margine dell’universo culturale e del dibattito globale.

I siti dei giornali italiani sono sciatti e fatti male, sono pieni di pubblicità e immondizia, sono mantenuti da editor poco capaci che non si curano di ricontrollare che le foto siano proporzionate, che i titoli abbiano senso, che non ci siano svarioni. Gli articoli sono spesso di qualità infima, i temi sempre quelli, gli spunti di riflessione inesistenti. Per non parlare della televisione, che è un continuo insulto all’intelligenza. Lo è a partire dalle serie TV, tanto squallide quanto le soap opera messicane, fino ai programmi impegnati in cui Berlusconi è l’unico argomento — quando finalmente morirà gli italiani non avranno più nulla di cui parlare.

Ok. Anche qui di cose strane ce ne sono tante. C’è la libertà usata come arma assoluta, per cui ogni tentativo di regolamentare comportamenti assurdi o di estendere le garanzie sociali è un attentato. La situazione di chiusura del governo che costa agli americani 300 milioni di dollari al giorno ne è uno splendido esempio. C’è anomia e disperazione, che spiegano le sparatorie a caso: ogni tanto semplicemente qualcuno esce di senno. Ci sono enormi disuguaglianze difese a spada tratta e ci sono gruppi sociali totalmente ignari delle violazioni perpetrate dai grandi capitali a scapito loro: dall’inaccessibilità delle cure mediche all’illegalità dei sindacati fino alle sofisticazioni alimentari. Ci sono solo due partiti, solo il rosso o il blu, e una conseguente riduzione di ogni concetto a una battaglia semplicissima, piatta, inarticolata.

Poi ci sono i bianchi abbienti che scrivono sui giornali che trovano le sfumature, ma non a tutti interessa di leggerne. Non serve sapere per avere un’opinione, basta dare voce a quello che dice la pancia, il cuore, the gut. L’intrattenitore Kimmel qualche giorno fa ha intervistato per gioco i passanti chiedendo loro quale provvedimento preferissero tra Obamacare e l’Affordable Care Act, che sono la stessa cosa, ottenendo risposte assai appassionate a difesa dell’uno o dell’altro. La gente non sa, sente cose, le ripete, non capisce e raramente cerca di informarsi, forse non ne ha tempo, o forse sa che anche se lo facesse la sua opinione a favore o contraria non conterebbe poi molto. La politica è un circolo esclusivo.

Anche a livello umano, le persone sono relativamente diverse da quelle che conosco in Italia. C’è meno empatia, e anche se tutte le conversazioni iniziano con “Hi, how are you?” raramente la domanda è sincera, non un modo di dire.

Invece sapete chi è veramente speciale qui? Gli altri italiani. Che lavorano, si ammazzano di fatica, fanno cento lavoretti part-time tutti insieme pur di farcela e poi ogni tanto si incontrano davanti a un piatto di cibo straniero a raccontarsi storie.

Quante persone intelligenti e capaci che l’Italia allontana. La cosa che mi fa rabbia è che saremmo stati intelligenti e capaci anche a casa, e invece ce ne siamo andati e di motivi per tornare non ne abbiamo trovato nessuno. Infatti se tornassimo non se ne accorgerebbe nessuno, e non avremmo possibilità di mantenere il nostro tenore di vita — e badare che per “tenore di vita” non intendiamo stipendi da capogiro e lussi sfrenati, ma quel minimo che significa soprattutto indipendenza ed autorealizzazione.

Se tornassi in Italia domani e iniziassi a cercare lavoro non avrei molte possibilità di vivere in una casa che non sia quella di mamma e papà. Non potrei esercitare la professione che ho studiato per fare, perché non sono certificata come professionista ma ancora prima perché il mio expertise è sicuramente maggiore di quello di molti redattori, direttori, telecronisti, per i quali però sono solo una venticinquenne presuntuosa.

Proprio ieri, per pura curiosità, ho cercato su jobrapido.it un lavoro da giornalista, in tutta Italia. C’era un solo annuncio per una web tv romana che cercava un pubblicista da assumere con contratto a tempo determinato di un mese, con possibilità di proroga.

Il futuro non lo si pianifica un mese alla volta. Ed è per questo che nonostante tutto (tutta la solitudine, tutta la frustrazione, tutta la consapevolezza di non stare passando il mio tempo accanto a tutte le persone che amo, tutte le difficoltà quotidiane, tutte le incertezze professionali e tutte le strane strade a zig zag che sto prendendo per capire cosa veramente voglio fare di mestiere) penso che sia saggio per me restare qui e darmi da fare. Si vive una volta sola, ed è bene iniziare presto. Però certo che mi mancate, e non sapete quanto è difficile a volte motivarsi a credere, insistere, o semplicemente ad andare avanti giorno per giorno e portare pazienza.

In tutto questo, quella persona che ho conosciuto qui il 9 ottobre del 2010 è la ragione, l’accidente e il veicolo di tutto questo. La mia più grande fortuna, la più inaspettata coincidenza e l’avventura di tutti i giorni che uno alla volta cambiano e si scrivono per rendere possibile quello che abbiamo. Di lui ho enorme stima e ammirazione, e nella sua voglia di fare, nel suo sapere esattamente come farlo e nella sua immensa motivazione a raggiungerlo io ripongo molte speranze che a un bel punto la vita non sia solo lavoro per sopravvivere, ma anche piacere di fare quello che si vuole fare. Ancora non so bene cos’è, ma mi piace sperimentare mentre lo metto a fuoco.”


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