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L’oblio della violenza

Creato il 22 luglio 2011 da Trame In Divenire @trameindivenire

L’oblio della violenza

A pochi giorni da un brutale omicidio, considerazioni sulla Fasano che dimentica

Un delitto da far west. Basta uno scambio di sguardi, magari innocuo, l’indugio di un attimo in più, per trasformare una serata al bar in una tragedia senza senso, in una lotta tribale.

E’ così che è morto, massacrato di botte dai fratelli Annibale e Mario Scolti (29 e 19 anni), Giovanni Bongiorno, un 47enne fasanese, invalido civile e padre di due figli. Il fatto è avvenuto in un bar di Fasano a pochi passi dal centro cittadino, nella notte tra il 28 e il 29 maggio. L’autopsia ha accertato una serie di lesioni sul corpo della vittima, tra cui fratture alle costole, ecchimosi al volto e soprattutto due gravi fratture al cranio da cui dipendono le emorragie cerebrali che hanno provocato la morte dell’uomo. Dopo quattro giorni dalla brutale aggressione, Bongiorno è morto nel reparto di Rianimazione del Perrino.

In seguito all’aggressione, i fratelli Scolti si sono allontanati, facendo perdere le loro tracce e lasciando agli avventori del bar il compito di chiamare i soccorsi. Sono stati rintracciati ed arrestati il giorno seguente, nel reparto di Ginecologia dell’ospedale di Brindisi, intenti a festeggiare la nascita del quinto figlio del fratello maggiore, Annibale.

Una vita si spegne in questo modo, dopo una violenza priva di qualsiasi tipo di motivazione – se anche la violenza possa mai avere un perché – , che sfugge alla comprensione razionale. La morte sorprende chi la guarda da lontano, perché stupisce la rapidità e l’imprevedibilità con cui si manifesta. Eppure non c’è nulla di cui meravigliarsi.

Fasano non è sempre la cittadina tranquilla che vorrebbe essere. L’illegalità e la violenza sono metastasi silenziose, radicate in profondità nella cultura della popolazione intera, e non solo nel cuore delle situazioni più disperate. Il problema della nostra città è che nega di avere problemi. Rifiuta il confronto con se stessa e preferisce indignarsi in silenzio, in casa propria, e poi riporre accuratamente la polvere sotto il proprio tappeto. Preferisce darsi un colpo di cipria sul naso per mascherare la realtà, perché salvare l’immagine è una priorità rispetto alla necessità di giungere a una consapevolezza di sé.

Sembra che la tendenza sia quella di liquidare e archiviare verità che potrebbero risultare imbarazzanti e prendere le distanze dalle responsabilità collettive che ci rendono tutti parte di un grande contesto sociale e culturale. Gli episodi di violenza e di criminalità non sono qualcosa di circoscritto ai singoli quartieri dove avvengono o alle singole persone che li compiono, ma sono cellule infette nutrite dall’indifferenza e dall’ipocrisia perbenista.

La morte di Giovanni Bongiorno è solo l’ultimo dei casi noti. Pochi ricordano, o vogliono ricordare, le tristi sorti di quelli – tanti – che nel ventennio precedente sono sprofondati in circoli viziosi di droga e contrabbando di ‘bionde’, o di tutti quelli che per caso sono diventati vittime dei giri di racket e di episodi intimidatori. E oggi, chi si ricorda di Palmina Martinelli, se non grazie alla riapertura del caso da parte di alcune importanti emittenti televisive nazionali? Quante vittime dovrebbero esserci ancora prima che qualcosa si smuova nell’animo dei cittadini e quanto sangue dovrebbe ancora scorrere perché la collettività smetta di negare e di dimenticare?

Serena Rosati

 pubblicato su Largo Bellavista luglio/agosto 2011


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