Le misure varate dal governo riguardo il gravissimo problema delle acciaierie di Taranto sono indicative della mentalità italiana riguardo alle questioni ambientali.
Partiamo dalle valutazioni circa la situazione di partenza.
La situazione ecologica della provincia di Taranto è talmente grave da poter essere accostata ad un romanzo di fantascienza di Philip K. Dick. Il tasso di incidenza del cancro è del 15% superiore alla media nazionale, le emissioni di diossina, pur inferiori rispetto ad alcuni anni fa, raggiungono i 3,5 grammi annui1. I giardini pubblici, le strade e le case vengono ricoperti da un pulviscolo grigio composto da metalli pesanti. E i morti per la respirazione di metalli pesanti, con conseguente distruzione del sistema cardiovascolare superano gli 11.550 complessivi2.
Non bisogna illudersi: il problema ha radici profonde e antiche. Semplicemente, i nodi sono venuti al pettine negli ultimi mesi. Certo i problemi si sono mostrati in un momento economicamente disperato, ma l’economia italiana è in stagnazione dal 1994, e forse può essere questo uno dei motivi che hanno spinto i governi precedenti a mandare avanti la produzione senza risolvere la situazione. Perché sistemare i problemi ambientali dell’Ilva di Taranto, vuol dire necessariamente chiudere gli impianti, su questo non bisogna spargere illusioni. Per mettere a norma gli impianti bisogna necessariamente fermarne l’attività. E il solo spegnimento degli impianti richiederebbe almeno sei mesi3. Non è possibile neppure spegnere un solo impianto alla volta continuando la produzione negli altri, perché i reparti sono strettamente collegati tra loro, e se la produzione venisse sospesa in uno di essi, necessariamente dovrebbe essere bloccata anche nel resto della fabbrica.
L’Ilva di Taranto mostra chiaramente la mentalità di governi, capitalisti e sindacati italiani in merito ai problemi legati all’inquinamento industriale. E, generalmente, è una mentalità molto più arretrata che nel resto d’Europa. Infatti la sentenza dei magistrati, così duramente attaccata da molti fronti, è stata emessa in rispondenza di direttive ambientali europee (sottoscritte solo in ritardo dall’Italia). E l’ormai certa prosecuzione dell’attività verrà probabilmente sanzionata dall’Unione Europea, perché dannosa per l’ambiente e per la salute non solo dei cittadini di Taranto, ma di quelli italiani e, più in generale, di quelli europei.La posizione del PD e del PDL durante la contrattazione è stata poco difendibile. Entrambi i partiti hanno spinto affinché si potesse trovare una soluzione condivisa.
Così, Bruno Ferrante, (appena succeduto a Nicola Riva nella presidenza dell’Ilva), aveva promesso di stanziare almeno 70 milioni di euro per la bonifica degli impianti. E nonostante tecnici, esperti e magistrati avessero previsto investimenti per più di 300 milioni, i partiti di maggioranza si sono dichiarati felici e soddisfatti; il PDL per non aver contrariato il dio dell’industria; il PD per aver salvato 12.000 operai delle acciaierie e circa 20.000 dell’indotto nel resto d’Italia.
Chi avrebbe pagato la differenza tra i costi reali della bonifica e quelli promessi da Ferrante? Con ogni probabilità lo Stato Italiano, in un momento in cui l’attuale governo, pur di fare cassa, lascia 250.000 esodati allo sbaraglio e taglia fondi alla ricerca e all’istruzione.
Anche il presidente della Puglia, Vendola, si è lasciato sfuggire affermazioni apertamente contraddittorie. Il 14 agosto ha rilasciato un’intervista presso “l’Unità”, intitolata “Chiudere le fabbriche non è da progressisti”, riferendosi al Patto dei progressisti stipulato con il PD.
Sul quotidiano fondato da Gramsci, il presidente della Puglia ha affermato che mantenere aperta l’Ilva è un dovere per non provocare un disastro sociale. Anche perché l’ideale del progresso vuole che nulla arresti la produzione industriale. D’altro canto, Vendola ha anche provato a difendere a spada tratta il diritto alla salute degli abitanti di Taranto, forse ricordandosi che il proprio partito si chiama “Sinistra Ecologia e Libertà”.
Una strategia che in altre occasioni si sarebbe definita di cerchiobottismo. Ma le dichiarazioni del presidente della Puglia rientrano nel sentimento comune espresso dal governo e dai partiti di maggioranza, il primo interessato soprattutto ad evitare danni economici che seguirebbero ad una chiusura degli impianti, i secondi mossi dal desiderio di non scontentare gli elettori da nessun punto di vista. Intento, quest’ultimo, praticamente utopico.
Ma forse la posizione più infame è stata quella assunta dal governo. Monti ha fatto di tutto affinché non venisse fatta valere l’ordinanza dei magistrati che consigliava molto caldamente la chiusura degli impianti (lo si ripeterà: una decisione inevitabile per una seria messa a norma dello stabilimento), ponendo come alternativa la chiusura e il commissariamento di questi.
Il governo si è dunque incontrato con Ferrante il 17 agosto, naturalmente senza consultare i sindacati, le associazioni ambientaliste o i rappresentanti della società civile di Taranto.
Ferrante ha affermato di aver investito già 90 milioni di euro per mettere a norma gli impianti. Non ha dato indicazioni circa il periodo in cui il denaro è stato investito e soprattutto quali misure siano state prese. Forse si riferiva alle insistenze del presidente Vendola, comunque risultate a posteriori assolutamente insufficienti. Ha inoltre garantito di stanziare altri 56 milioni di euro (contro i più di 70 promessi solo qualche giorno prima), anche qui senza fornire indicazioni di tempo e di modalità di intervento.
Promesse del genere, che sarebbero state giudicate insufficienti da chiunque, sono state applaudite come saggi sacrifici per l’impresa sia da Monti che dai ministri Grilli (Economia), Passera (Sviluppo) e Clini (Ambiente).
Il ministro dell’ambiente in particolare ha mostrato tutto l’attaccamento all’industria da parte di questo esecutivo. Una contrattazione conclusa con questi risultati avrebbe portato alle dimissioni qualunque ministro davvero attento ai problemi ecologici (spesso gravissimi) del nostro stato. Ma probabilmente Clini non ha voluto smentire la tradizione confermata dal precedente ministro Prestigiacomo, che cercava di difendere la realizzazione di centrali nucleari anche dopo il disastro di Fukushima.
Una decisione seria per il dramma quotidiano dell’Ilva avrebbe dovuto comprendere lo spegnimento degli impianti per attuare la bonifica; e l’industria avrebbe dovuto provvedere stipendi pieni agli operai (riutilizzandone poi il maggior numero possibile nelle operazioni di messa a norma), se non altro perché questi hanno rischiato la propria salute per decenni lavorando in condizioni sanitarie ottocentesche.
Una soluzione alternativa avrebbe potuto essere quella di rallentare fortemente la produzione degli impianti, ridistribuendola in stabilimenti minori (naturalmente a norma), e quindi procedere in un secondo momento allo spegnimento del complesso.
Ma delibere simili avrebbero dovuto concernere una posizione intransigente da parte del governo e dei sindacati, che si sarebbero dovuti appellare alla sentenza dei giudici.
Ma sia il governo che la Cisl avevano un’altra opinione, e si tenterà la bonifica lasciando aperti gli impianti. Il risultato sarà un terno all’otto.
E già mentre proseguiva la trattativa, i mezzi d’informazione glissavano su molti dei problemi sanitari legati agli impianti e rimarcavano l’importanza dell’Ilva sia dal punto di vista della produzione industriale (è il più grande polo siderurgico dell’Unione Europea) sia sul fronte dell’occupazione.
Tra qualche tempo, si ricorderà del problema ambientale dell’Ilva solo chi ascolterà con attenzione le parole della canzone “Vieni a ballare in Puglia” di Caparezza.
Note:
- Wikipedia afferma che le diossine rilasciate annualmente dagli impianti sono passate da 800 grammi annui del 1994, a 175 grammi annui nel 2008, a 3,5 grammi annui nel 2011, contraddicendo almeno in parte la tesi sostenuta da Vendola, secondo il quale il grosso dello sforzo sarebbe stato effettuato dopo il 2008. Le diossine hanno reso non pascolabile il terreno situato ad un raggio di meno di 20 km dagli stabilimenti siderurgici.
- Stime relative agli ultimi 7 anni di attività.
- Secondo quanto dichiarato dalla dirigenza dell’Ilva e dai principali sindacati.