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L'odore dei pomeriggi (quando li butti via) - Parte uno

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Svolgimento
27 dicembre 1994

L'odore dei pomeriggi (quando li butti via) - Parte unoL'autostrada corre veloce: alberi fittissimi, mare calmo, un campanile tutto rotto di un beige sfracellato di polvere al vento, luna, bianche strisce. Tutto scorre e io corro. Barriere d'avorio di mezzeria, che nonostante siano grigiastre risplendono di chiaro quando ci passo sopra coi fari. Sembra una discoteca. Allungo il piede sulla frizione e do la quinta che mi spinge sul sedile. Sembrava mia moglie quando mi spinge sul materasso di casa nostra. Le lenzuola fanno un mantello sulla sua schiena e quando gode apre la bocca e spezza i gemiti col tremolio di una lavatrice. Irene ha ancora un bel culo. Metto la mano fuori dal finestrino a farla volare per finta, via, lontano, a strappare le foglie a quegli alberi di Marfan. Il basso questa sera rimescola punk-hardcore degli anni passati. Io corro. Io scorro. Mi tremano le gambe sui pedali se ripenso a questa giornata. Buona parte di me se ne frega allegramente, anche se un filo invisibile resta agganciato alla trappola dei pensieri ed io, che corro, sto sfilando lentamente questo maglione grigio e slargo che mi ha regalato. Incredibile quanto il tempo sembri veramente poco quando si è in auto e non c’è traffico, sono già passate tre ore e mi sembra d’esser partito mezz’ora fa. Sta facendo giorno e il caldo sarà tremendo oggi. Comincio a riconoscere la strada più interessante del mio tragitto, sto per arrivare. La curva piena di erba verde mi fa un cenno, quindi scendo di marcia e freno leggermente, poi salgo nuovamente con il cambio e riprendo per Via Torino. I palazzi vicini qui non sono proprio a loro agio, non sono accostati ai colori, la gente stava meglio prima, sembrava più serena. Fermo al semaforo prima di casa un lavavetri di chissà che paese vuole pulirmi il vetro, ma io rispondo con un no combattuto, perché ho già dato precedentemente e perché oggi ho un po’ le palle girate, ed ho sonno da morire, ed ho fame, maledizione, fame. Sono arrivato.L’anticamera si presenta come sempre, metto il cappotto nero sull’attaccapanni. Regna il silenzio. Maldestro come sono, inciampo come sempre su quel bastardissimo, invisibilissimo, scalino e aggrappandomi al muro per non cadere urto il vaso con gli ombrelli, che rimbomba nell’eco di casa mia. Rumore di passi sbatte prima sopra di me e poi giù per le scale, molto lentamente. «Non dovevi arrivare ieri? Cosa è successo? Mi sono addormentata con il pensiero a te che non chiamavi neanche. Cosa ti è successo?» - era Irene in tenuta da notte: maglia nera, pantaloni della tuta grigi, occhiaie, denti bianchi, caratteraccio, trucco del giorno prima, capelli ovunque. Ho un’erezione quando la vedo. «Ho fatto tardissimo, mi hanno trattenuto nuovamente al lavoro e non ho potuto districarmi dagli impegni in riunione. Mi spiace, amore, però se vuoi andiamo a dormire adesso» lei mi guarda con le ciglia all’insù e concentra tutta la voglia di ridere su un minuscolo sorrisetto incredulo, poi dice «Fatto tardi in sala prove e non avete concluso un cazzo. Vieni qui, campione» disse lei beffandosi di me. Io ci andai e mi portò su, in camera da letto. Aveva cambiato le tende. «Hai cambiato le tende?! Che fine hanno fatto le tende scure? Perché tutta questa luce proprio adesso che devo dormire?» e lei non rispose. Sempre in silenzio si fece largo davanti a me e sbadigliando stiracchiò le braccia, le maniche della maglia caddero sulle sue spalle e un brivido di freddo le scosse la pelle, quindi si ritirò nuovamente dentro quel caldo, stringendosi al petto. Ricadde sul letto a dormire e ronfare come non fosse mai stata sveglia. Capita spesso anche a me, ma non questa volta, perché decido di fare una doccia. Mi dirigo verso il bagno, le piastrelle grigie fanno degli scalini ai lati della porta in legno scuro che si apre emettendo un verso come di bambino-che-ha-fame. Prima di varcare la soglia tolgo le scarpe e penso che se fossi un cane sbranerei proprio quel tappeto in finto-qualsiasi-cosa-sia azzurro. Mi spoglio. La doccia profuma. Apro l’acqua calda e allungo la mano verso il getto che aumenta di temperatura in maniera graduale, così, quando sto per ustionarmi la mano, apro leggermente l’acqua fredda sicuramente a metà di quella calda, così il getto sarà caldo non così tanto da corrodere la mia pelle e cucinarmi. Il fumo si fa denso e pesante sia dentro che fuori dal plexiglass. Un formicolio parte dalle punte delle dita delle mani ed io non riesco a farlo smettere, nemmeno strofinando le mani l’una contro l’altra come faccio sempre. Mi sento strano, mi siedo sul pavimento della doccia e mi piove addosso tutta l’acqua del mondo. Sono il padrone dell’acqua del mondo, perché finché decido che mi piace avere l’acqua addosso nessuno spingerà la leva dell’acqua verso il basso. Sono il padrone dell’acqua del mondo e però non riesco a muovere le mani e il formicolio adesso si muove verso gli avambracci. Devo poggiare la testa al muro, tutto è pesante. Non riesco a muovere un muscolo. Tento di aprire la bocca e parlare, ma un mugolio viene picchiato dal suono dell’acqua. Tutto si oscura, sembra...sembra quasi...

Sid


*il titolo è preso da una canzone dei Laghetto

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