Il mito.
Nella sua accezione positiva, il mito accompagna la storia dell’uomo, e attraverso la sua mediazione simbolica, nel corso dei secoli si è affermato quale dimensione imprescindibile di tutta l’esperienza umana attraverso fenomeni diversi. Fin dalle origini dell’itinerario speculativo del pensiero greco si riconosce il contributo del mithos quale espressione narrativa-fantastica dell’originaria esperienza religiosa, nonché quale primo terreno e alimento del logos, inteso come esigenza di apertura ed attesa desiderante verso una dimensione divina, potremmo dire, verso una dimensione di bene che preesiste alla creazione.
In questa ottica, mithos non è semplicemente una favola o un’illusione, ma radicato nel profondo dell’esperienza umana, esso conserva un germe ermeneutico rivelativo della verità. La conseguenza è che il mithos rappresenta la più arcaica forma di legittimazione in generale, ma anche il centro di un sapere totalizzante, esplicativo e giustificatorio della realtà che, male interpretato, può degenerare in ideologia autoriflettente. Attraverso un approccio razionale al mito è possibile distinguere questa sua capacità veritativa e riconoscere il suo poter essere anche occultamento e mistificazione.
L’ideologia ha bisogno del mito, ma nella sua capacità mistificatoria e di occultamento, al fine di ottenere legittimazione. L’ideologia mistifica la realtà all’interno di una stretta e chiusa impostazione razionale. In questo angusto spazio, volutamente incapace di consentire un uso ampio della ragione, il mito ha la funzione di supplire alle mancanze che l’ideologia non può colmare autonomamente. Mito e ideologia sono strettamente connessi e laddove l’ideologia parla della realtà nascondendola, il mito che rinuncia a un uso ampio della ragione e si fa mero strumento dell’ideologia mistifica la realtà e la sacralizza, finendo per esprimere unicamente il tempo del quale è ritratto e strumento. Così come l’ideologia tende irrefrenabilmente verso il mito, infatti, non vi è ideologia senza mistificazione e senza che quest’ultima determini sistemi chiusi ed esclusivi che nascondono la verità.
Ecco annodarsi, allora, la trama che conduce alla crisi della legittimazione degli ordinamenti giuridici, laddove al logos arricchente si preferisce seguire il mithos, con il suo potenziale giustificativo e conservatore. Vincere la battaglia contro l’ideologica significa liberarsi da questa visione di mito falso e illusorio, per riscoprirne il potenziale veritativo che conosce il rinnovamento e l’utopia.
Il logos.
Il logos non si caratterizza per un’immediatezza rivelativa, ma va teorizzato e quindi posto a sua volta in relazione fin nella sua più esplicita immediatezza di parola, di logoi, molteplici, che si compongono in discorso, perché hanno origine e tendono al logos che ha in sé la verità del molteplice, verso quel «logos a tutti comune. Il logos è il linguaggio, è l’unità dialogante dei logoi, della parola.
Innegabile è la seduzione del centro, della forza, del potere, della tirannia che nell’autorità si fa baluardo di isolamento e auto-conservazione; certo è, allo stesso tempo, un allontanamento dal logos e una deriva ideologica nel mythos. L’ordinamento giuridico esiste proprio in forza di questo duplice pericolo, a tal punto che l’isolamento e l’auto-conservazione diventano un pericolo costitutivo dell’essenza dialogica dell’ordinamento. L’ordinamento giuridico non si risolve in uno spazio ordinato e non si dissolve in una individualità militante, quasi avesse unicamente la missione di sopravvivere alle circostanze. Paradossalmente, la fine di tali pericoli costituirebbe la fine stessa dell’ordinamento giuridico, dal momento che esso non si riconosce solo nell’assorbire in sé la diversità, ma di più, si auto-comprende quale esperienza relazionale che nella verità rompe l’isolamento e con la libertà si apre alla diversità.
La sfida che l’ordinamento giuridico vive al proprio interno è proprio quella che lo vede necessariamente essere uno, ma senza rinnegare se stesso, il suo essere irrinunciabilmente plurale. L’affermare “ordinamento giuridico” sottintende la tolleranza, nel senso della massimizzazione della comunicazione tra elementi diversi se non antagonisti. L’ordinamento giuridico è fattore di tolleranza, quale luogo di comunicazione per la valorizzazione della verità, e cioè delle sue molteplici e plurali interpretazioni. L’ordinamento non neutralizza le differenze, ma le mette in rete, in comunicazione e si fa esso stesso colloquio, affermandosi quale prassi abituale e stabile di dialogo.
Interrogarsi oggi sul senso dell’ordinamento giuridico significa, dunque, porsi seriamente di fronte alla scelta di rispondere nella prospettiva del riduzionismo della neutralizzazione delle differenze, per affidarsi al phármakon della sola autorità, o piuttosto, di porsi a servizio della valorizzazione delle differenze attraverso una pratica relazionale che ha come proprio orizzonte la constante ricerca dell’unica verità, sviluppando la prospettiva antropologica che considera l’uomo non un “individuo” ma una “persona”. È questa la libertà che deriva dalla verità e che genera dialogo.
Nonostante le contraddizioni e le fatiche che il reale genera e alimenta anche attraverso usanze acquisite e regole accettate, è indispensabile uno sforzo responsabile di tutti coloro che, da persone e non da semplici agenti, partecipano all’ordinamento, perché il dialogo non rimandi a un “dover essere” effimero e lontano, ma operi per “poter essere” concreto e operativo.
A. Iaccarino, Legittimazione degli ordinamenti giuridici tra mito e utopia, in G.L. Falchi – A. Iaccarino, Legittimazione e limiti degli ordinamenti giuridici, 2012.