In ritardissimo ma ben convinta e orgogliosa di partecipare all’eds della Donna Camèl, eccomi qua, con uno dei miei soliti raccontini dove ficco dentro un po’ di cose che mi sono molto care: Venezia, il settecento, la musica. Prima non ho proprio potuto: sapete com’è, a volte si ha il tempo ma non una storia, io ultimamente ho le storie ma non il tempo per scriverle.
Ah povero Serafino, che ne sapevi tu! Tu, l’ultimo di sette fratelli e sorelle, tu il più gracile e pensieroso, quello buono solo a cogliere frutti dagli alberi mentre gli altri vangavano la terra e spaccavano la legna, robusti e fracassoni quanto tu eri – e sei – così magrolino e inappetente, così sognatore e suggestionabile, così fatto di un’altra pasta.
Vai, vai – ti hanno spinto, emozionati, tutti quanti, tuo padre, tua madre, i parenti, perfino i pochi amici un po’ invidiosi della tua fortuna.
Vai vai, Venezia è la città della musica, dei teatri, degli artisti – ti lusingava il curato, quello che per primo si era accorto del tuo talento e ti aveva messo in mano il primo violino.
Vai,Serafino, tu sei nato per diventare un grande musicista, qui non è posto per te, non sarai mai un contadino, non imparerai mai a zappare i campi, a tirare il collo alle galline, non sei fatto per questa vita.
Ne parlavano tutti insieme la sera intorno alla tavola, facendo conti e progetti con gli occhi lustri. Tua madre ti ha rimesso a nuovo un abito di velluto che a tuo padre era venuto stretto molto presto, e ha venduto un’oca delle migliori per farti fare un paio di scarpe eleganti, con la fibbia, da città. Per i concerti, diceva, commovendosi. Tuo padre ti ha contato il denaro in un sacchetto di stoffa e ti ha fatto un discorsetto da uomo, poi ti ha salutato stringendoti la mano come si fa tra adulti, la sua mano grossa e coriacea e la tua gentile e affilata, quella di un violinista, di un angelo.
E hai lasciato il paese, un barcaiolo ti ha traghettato col tuo piccolo baule attraverso un largo braccio di laguna e tu hai finalmente messo piede nella città dei tuoi studi e del tuo incantevole futuro.
Ma nessuno ti aveva parlato delle sue pietre umide, del salso che corrode i muri, dell’ombra perenne di certe calli profonde, dell’acqua che in inverno lambisce le soglie delle case e a volte risale i primi gradini, col suo odore di marciume e il suo ritmo lento e indecifrabile. Non ti avevano detto che nella tua stanzetta in affitto avresti visto una lama di sole solo due ore la mattina, e per il resto del tempo non ci sarebbe stato alcun caminetto a scaldarti mentre studi su un tavolino traballante o provi la tua musica con i mezzi guanti. Non immaginavi quanto avresti rimpianto il grande focolare sempre acceso nella cucina di casa tua, né che avresti dovuto accontentarti di un catino di acqua fredda per lavarti il viso all’alba e di uno scaldino che a malapena ti intiepidisse il lettuccio umido la notte.
Nel salone dove prendi le lezioni con altri giovinetti c’è lo stesso freddo, e solo un po’ più di luce dai finestroni; il maestro, un ex-gesuita suscettibile e intransigente, non tollera lamentele né incertezze, pretende l’impossibile dai suoi allievi e in particolare da te, che ti sei rivelato così promettente fin dal primo giorno, tu con quel dono divino, il tuo orecchio assoluto. Ma già dopo qualche settimana è cominciato il tormento dei geloni, che ti deformavano i sensibili polpastrelli e li gonfiavano e ulceravano fino a farti piangere in silenzio mentre ti imponevi di suonare lo stesso. Il contatto con le corde del tuo strumento li fa sanguinare, ed è così umiliante, oltre che doloroso.
I soldi poi non bastano mai: l’affitto, la lavandaia, le lezioni, i libri. I tuoi scarpini eleganti e inutilissimi non hanno retto ai primi geli e li hai fatti riparare due volte, prima di rassegnarti a procurarti degli stivaletti più dozzinali ma perlomeno più caldi e robusti.
Eppure la passione per la musica finora ha mantenuto viva la tua volontà di resistere; a volte hai suonato per nessuno, sui gradini di un ponte o di una chiesa, per il solo incanto di dialogare con il tuo strumento che sempre risponde con voce celestiale al fiotto di felicità che ti nasce in cuore quando pensi alla musica.
Ma ora, povero Serafino, c’è questa nuova disgrazia che ti sta rodendo l’animo da qualche settimana: quel rumore che ti assilla notte e giorno, ti attraversa la testa da un orecchio all’altro, diabolico e multiforme, a volte come uno stormire di fronde, altre come risacca di alta marea, oppure rauco come un soffio forzato dentro una canna, talora persino simile a uno squittire di topo, o un pigolio di uccelli impazziti. Ti dà poca tregua, ti toglie il sonno, ti smagrisce di giorno, ti rende un povero spettro febbrile che ha perso l’orientamento e rabbrividisce anche alla solita eco dei suoi passi, diventata un rimbombo insopportabile. E il peggio è che anche le note del tuo violino sono contagiate da questo male, ed escono distorte, irriconoscibili, raschianti come le unghie su un vetro, uno strazio che va peggiorando e ti spegne pian piano non solo la dignità ma la stessa voglia di vivere.
Ti torna alla mente il nonno. Era sordo, sordo quasi del tutto. Anche lui sentiva rumori inesistenti, e se ne lamentava con tutti, e tuttavia non avvertiva le parole di chi cercava di consolarlo. Il suo mondo era popolato di stridori e cigolii, e null’altro. E ora sta succedendo a te, povero Serafino, che hai solo diciassette anni e quell’orecchio assoluto che avrebbe dovuto fare di te un grande artista.
L’ultima notte in bianco ha fatto di te uno straccio. Senza la musica, non hai più motivo di vivere, non hai più alcun futuro su cui contare, alcuna gioia da raccogliere.
Sei in cima a un ponte. Ti affacci alla spalletta. L’acqua del canale è verde e pigra, e muove lentamente con sé qualche immondizia: quasi una metafora della deriva senza più rimedio che è diventata la tua vita. Due cose sole ti restano da fare. La prima è la più facile: scavalcare quel parapetto e lasciarti cadere nell’acqua fredda e sporca. La seconda invece è troppo difficile, e sai già che non ci riuscirai: non riuscirai a lasciarti anche andare a fondo perché ci vorrebbe uno sforzo di volontà disumano per rinunciare a nuotare, e tu sai nuotare e sei anche un po’ codardo, così ti salveresti malgrado tutto.
Ma ci provi lo stesso, spinto da un nuovo attacco di fruscii e scampanii che ti si scatena in testa più forte del solito, forse animato dal galoppo del tuo cuore portato allo stremo. Sei magro e agile, una gamba è già sopra la spalletta, tiri su anche l’altra.
“No no, bambin mio, cossa fastu? – grida una donna, e ti senti trattenere un braccio, poi anche l’orlo della giacca, e la donna insiste a gridare e altri passanti si fermano, ti soccorrono, ti strappano al parapetto, ti parlano tutti insieme, accalorati, premurosi, e tu ti abbandoni fra le loro braccia e ti afflosci a terra chiudendo gli occhi pieni di lacrime.
Un uomo grande e grosso ti carica in spalla, qualcun altro si preoccupa del tuo violino, la donna materna ti cede il suo scialle per coprirti la testa nuda, e tu sei senza forze e pieno di vergogna e lasci fare, non ti opponi più a niente, avresti voluto morire e forse sei morto lo stesso, anche se quelli te lo hanno impedito.
Ti portano lì vicino, nella bottega dello speziale. Lì dentro c’è un bel tepore e profumi pungenti. Lo speziale ti accoglie bonario, gli raccontano la cosa, lui ti fa sedere su una poltroncina e ti esamina con mani calde e sorriso indulgente.
“Su su, giovinotto, non sono cose da fare, queste. È stato un brutto momento, lo so, ma adesso è passato, vero? Prendete qua, bevete questo – ti danno qualcosa da bere, ti brucia un po’ la gola ma ti dà forza e conforto.
Poi lo speziale manda via tutti e avvicina una sedia per fare due chiacchiere con te, come farebbero un padre o un buon prete confessore.
“Allora, adesso potete dirmi cos’è successo – ti invita.
E tu, riscaldato nelle vene da quel cordiale, cominci a raccontargli il tuo male, prima con pudore e poi con sempre maggiore sincerità e particolari. I rumori, gli incubi, la paura, il nonno sordo. Gli confessi – e non sai nemmeno tu da dove hai trovato tanto coraggio – di esserti convinto di andare incontro a pazzia e morte precoce, perché un tormento come quello che soffri da qualche mese non può che far impazzire chiunque, soprattutto se giovane, inesperto e lontano da casa come te.
“Macché macché, per morire ce ne vuole, giovinotto. Intanto vediamo un po’ se si può fare qualcosa: ho già un’idea, sapete? E se è quella giusta, vi assicuro che tra pochi minuti uscirete dalla mia bottega guarito e rinato”.
Il sant’uomo va nel retrobottega, e quasi subito ne torna con degli oggetti in mano e un panno pulito. Hai paura, eh, Serafino? Paura di quella bacinella fumante, di quei piccoli strumenti metallici, di quel rito sconosciuto che sta per iniziare e potrebbe rivelarsi doloroso. Non ne sai niente, tu, di malattie, di dottori. A casa, in campagna, era tua madre a curarti quando avevi bisogno: tisane, impiastri, purganti, e via. Tutto andava a posto subito, grazie alle sue mani sante e all’aria familiare di casa tua, del tuo lettino, dei tuoi cari vicino a te.
Lo speziale comincia con guardarti l’interno dell’orecchio avvicinando una candela per vederci meglio. Lo senti ridacchiare piano, un riso più di soddisfazione che di derisione. Poi avverti un liquido caldo e oleoso entrarti in un orecchio; lo senti diffondersi piacevole e indolore, e chiudi gli occhi ormai pronto a tutto. Ora qualcos’altro si fa strada nel tuo orecchio, ma sempre in modo delicato anche se stavolta hai capito che si tratta di uno strumento, qualcosa di metallico, prudente e preciso. Ancora qualche istante, ed ecco la voce trionfante dello speziale che estrae la pinza, si raddrizza e annuncia “Ecco fatto!”
E infatti nello stesso attimo il tuo orecchio esacerbato si è riaperto alla vita come per incanto e senza dolore, solo un lieve ed euforico stordimento nel momento in cui l’ovatta e la risacca e gli squittii si sono dissolti per lasciare tutto lo spazio a un colpo di vento benefico e alla perfezione totale dei rumori circostanti, ora nuovamente distinti, puliti, intonati, non più stranieri. Anzi, ogni rumore è un suono, un’armonia vergine, un balsamo.
“Eccolo qua, il male che vi dava tanto fastidio: un frammento di paglia, nientemeno! – lo speziale ha un po’ l’aria di canzonarti, ma benevolmente, mentre ti fa vedere il frustolino ancora trattenuto nella pinzetta. Tu sgrani gli occhi, sei confuso, arrossisci: mai avresti pensato che una pagliuzza potesse rischiare di far impazzire un uomo. E allora ti viene in mente che sì, Marcolina, il fienile, il giorno prima di partire, lei un po’ piangeva e un po’ rideva, perché non voleva lasciarti andare, e non ti ha detto di no, e neanche tu hai detto di no a lei, e quel fienile era caldo e odoroso e ci avete passato le ultime ore e le più belle alla vigilia della partenza. Poi quella pagliuzza è partita con te, forse per impedirti di dimenticare Marcolina, o forse invece per farti diventare uomo davvero.
Adesso è tempo di tornare a vivere: ringrazi lo speziale, sei colmo di gratitudine, e gli chiedi quant’è il suo onorario. Ma lui non vuole denaro, no. Lui guarda il tuo violino, e tu per un attimo ti senti nuovamente morire all’idea che voglia essere ripagato proprio con ciò che più che ti sta a cuore.
Invece no, hai capito male: non è lo strumento che vuole, lo speziale, ma il piacere di ascoltarti suonare qualcosa solo per lui, ora, lì, tra quegli scaffali di noce, i vasi di ceramica con le scritte in latino, gli aromi canforati che impregnano il bancone. E tu, Serafino, suoni con le lacrime agli occhi, e il tuo violino è tornato a essere il violino degli angeli e alza verso le travi del soffitto e oltre la vetrina e su per la calle e in alto fino ai tetti e alle cupole e al cielo di marzo le note perfette del tuo orecchio assoluto.
* * *
All’eds della Donna Camel hanno partecipato, prima e meglio di me:
MaiMaturo – Il movimento
Lillina – Ti lascio una parola
Fevarin e carnazza – Un errore di sbaglio
*cla – Il pallone
Hombre – Testa di ignudo
MaiMaturo (bis) – Il rumore del vento
La Donna Camèl - Amico mio