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L’Orso e il Polpetta

Creato il 28 novembre 2011 da Libereditor

Andreatta Ferdinando detto Polpetta, ammogliato con figli, condannato più volte per furti boschivi e contravvenzione forestale.
Accusa di contravvenzione all’art. 27 della Legge sulle Privative, per essere stato trovato in possesso in Campese, il 21 febbraio 1873, di 3 kg. di tabacco in foglia.
Sentenza del 6 agosto 1873: multa fissa di L. 25,50 e 15 di proporzionale, modificate il 26 settembre dello stesso anno in 51 lire di multa fissa e 30 di proporzionale, e infine condonate il 25 luglio 1878.
Accusa (seconda) di contravvenzione all’art. 27 della Legge sulle Privative, per detenzione in casa di 300 grammi di tabacco in foglia, il 2 marzo 1874.
Sentenza (seconda) del 10 giugno 1874: multa fissa di L. 51 e 10 di proporzionale.

Mocellin Innocente detto Orso fu Stefano e fu Marina Gheno, anni 54, ammogliato con figli, domiciliato a Campese, illetterato, incensurato.
Accusa di contravvenzione all’art. 27 della Legge sulle Privative, per essere stato trovato in possesso, il 13 maggio 1870, di 4 Kg. di tabacco lavorato.
Sentenza del 16 luglio 1873: assoluzione.

L’Orso e il Polpetta
Era notte fonda e lentamente ci arrampicammo sul Caina tenendoci agli arbusti inzuppati d’acqua, tirandoci su di balza in balza con l’aiuto di qualche tronco d’albero precipitato dall’alto. Ci vedevamo appena ed eravamo costretti ogni momento a riposarci perché i muscoli delle gambe si irrigidivano per la stanchezza.
Quando, arrivati in cima, ci voltammo a guardare indietro scorgemmo un rosso bagliore sulla montagna dirimpetto.
«Ma guarda!» esclamò l’Orso. «Ecco una cosa che non vedevo da qualche tempo… Ah, se la vedesse il Gendarmo, come li manderebbe all’inferno! Ma cosa si staranno cucinando?»
«Magari un paio di scarponi e qualche fetta di polenta…», dissi io.
L’Orso si allontanò carponi in cerca di un riparo e lo trovò in un boschetto di abeti che sorgeva stretto contro una rupe.
Nessuno parlò di fuoco, probabilmente perché si sapeva che non avremmo trovato legna asciutta. Ci si stese, in quel riparo, l’uno stretto contro l’altro, avviluppati nelle coperte.
A questo modo, se non fa gelo, non si soffre troppo freddo.
Un vapore, dopo qualche momento, si sprigiona dai corpi e li tiene caldi.
Io avevo ancora un pugno di granturco e il Bernardo ne aveva quindici o venti chicchi. Gli altri avevano chi quattro chi cinque chicchi e li mettemmo tutti insieme, poi li dividemmo in parti uguali. Ognuno ebbe otto chicchi e tre ne ebbero nove. Io mi sentii una specie di farabutto per essere uno dei tre che ne avevano avuti nove, ma li mangiai.
Il vento fischiò tutta la notte e la pioggia  tempestò sugli alberi e sulle foglie morte.
Ci svegliammo un pezzo prima dell’alba e ognuno di noi era miseramente fradicio d’acqua, ma si mettemmo a parlare del cibo che ci aspettava una volta tornati a casa col guadagno di un mese. Tutti nominavano vivande che facevano venire l’acquolina in bocca. Nominarono un vino rosso che solo l’Orso era capace di procurare, salsicce tenerissime, d’una qualità speciale, un prosciutto stagionato rifilato a squadra e dolci alla cioccolata, stupende formagelle di Tremosine, sigari toscani aroma caffè e una grappa chiara che si poteva bere a bottiglie.
Quando alla fine fu abbastanza chiaro da vederci l’un l’altro in faccia, erano tredici ore che ce ne stavamo aggrovigliati nelle nostre coperte.


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