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L’orto degli altri – 10: Alcune ragioni per non firmare gli appelli

Creato il 25 gennaio 2011 da Sulromanzo

 oratoreLa scorsa volta si parlava della realtà della letteratura, oggi vi presento un post pubblicato da Letturalenta nel gennaio del 2006. Manganelli propone una riflessione sugli appelli nel suo Lunario dell’orfano sannita, rilancio nuovamente le sue parole, che, nonostante siano trascorsi quasi quarant’anni, mi appaiono ancora illuminanti e quanto mai attuali. 

A martedì prossimo con nuove segnalazioni interessanti. 

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Alcune ragioni per non firmare gli appelli

Non so perché, ma quando ho letto questo mi è venuto in mente quest’altro (formato pdf, 101 KB), un grazioso sermone di Giorgio Manganelli. Ne propongo qui un ampio stralcio, consigliandone naturalmente la lettura integrale mediante acquisto o prestito bibliotecario del libro sotto indicato o, in caso di indigenza o soverchia pigrizia, mediante clic del mouse sul secondo link del presente post.

Alcune ragioni per non firmare gli appelli.
[G.Manganelli, Lunario dell'orfano sannita, Einaudi 1973]

(…) Considerato come genere letterario, l’appello copre una angusta area di quello che fu il gran regno dell’oratoria. Cicerone lo collocherebbe tra i discorsi «ad animos permovendos», che vogliono dimestichezza con gli ascoltanti, devozione alle loro passioni, ai loro pregiudizi, ai capricci ed agli imperativi locali; ove occorra, vogliono lacrumas, sconvolgente chiome, supplosio pedis, lacerate tuniche a disvelar ferite; anche sventolio di orfani. Non proponendosi di ‘docere’, vale a dire fornire informazioni, ma solo ‘movere’, non ha doveri di veridicità, ma anzi di opportuna manipolazione. Mutolo persuasore, il testo dell’appello deve far supporre gesti impetuosi, tragici pallori, voce rotta o nobilmente asseverativa. Osserveremo che, nella geografia della decaduta oratoria, la repubblica degli appelli è contermine ad altra regione, un poco più monotona e sommaria, ma singolarmente consanguinea: intendo riferirmi al granducato degli epitaffi.

Confesso di avere in tal qual dispitto gli appelli; proprio come i mendicanti, specie i mendicanti con cane. Coltivo un atteggiamento ragionevolmente liberale verso gli accattoni di sobria oratoria, meglio se affatto impediti nella parola; non disamo le petulche zingaresse, tanfose e blasfeme; ma detesto i tremuli e queruli, che mi sgambettano con l’acquasantiera del supplice palmo, assistiti da cani sicari, prezzolati amici dell’uomo, dal capino inclinato e dagli occhi acquosi. Ben conosco il loro divisamenti; inchiodarmi alla mia ‘anima’, scatenare nel mio ‘cuore’ struggimenti e palpiti. «Oh tu ricco, tu sano, tu bella donna, tu assai e begli figliuoli, bella famiglia…» «Non una lira, figlio mio; fratello di sangue, non un baiocco; sventurato! non un tozzo di pan secco; non impunemente si scatenano nel cuore dell’uomo i demoni della bontà». Di quei cagnolini ordino un tappeto; e vivi hanno da essere.

Raramente accade che la mia firma sia giudicata idonea ad accrescere il valore suasorio di uno di codesti sermoni o messaggi. Tuttavia accade talora che qualcuno, ansioso di annerire i più remoti margini del suo candido foglio, per ozioso, languido zelo, per missionario fervore, ben sapendo che c’è sempre posto per chi vuole dar opera ad una buona causa, mi solleciti a dipanare la mia matassina di compartecipe inchiostro. Ma ecco: non appena il seduttore mi rivolge la parola, io mi sento immerso in un incubo benevolo, uno di quei sogni elastici e vischiosi da cui non si esce né per urlo né per strattone: percorro un miele, una cotognata di idee generali, di volti amichevoli, di tableaux vivants angosciosi e minatori. Difficile schermirsi: giacché appena si abbozza un peritoso diniego, subito avvertiamo non solo negli occhi degli altri, ma nel nostro stesso cuore, e intendo appunto cuore, un cauto disagio, un perplesso stupore, cui si potrebbero prestare all’incirca queste parole: «Sapevo che eri un bastardo, un vigliacco e altro ancora; tuttavia supponevo che un’elementare decenza ti avrebbe impedito di dichiararti favorevole allo sterminio degli infanti, alla deportazione dei vegliardi, alla guerra atomica preventiva e alla distruzione dell’umanità». Ingrata situazione. Arduo rompere il sillogismo: «ti presento un appello contro l’arsione dei civili, tu ti rifiuti di firmarlo; trai tu stesso l’inevitabile conclusione». Ecco, questo sottaciuto sillogismo è il cane sicario. Come quel cane, lui appunto è l’autentico, irreparabile bastardo.

(…) È bene [che l'appello] contenga una perentoria richiesta di fare o disfare alcunché: richiesta tanto più imperativa in quanto affidata ai persuasivi argomenti della logica, del buon senso, dell’onestà, della comune umanità; qualità appunto di cui si sa affatto privo il destinatario dell’appello, come sarà detto in altra parte, possibilmente preliminare, dell’appello stesso. È bensì vero che codesto destinatario generalmente si rifiuta di sospendere le stragi dei civili, restaurare le conculcate libertà, liberare i carcerati innocenti e disimpiccare gli avversari politici; ma è anche vero che ci fa una pessima figura.

L’appello di rado evita di cadere nel missionario; e v’è chi se ne turba. Certo, tutti sanno quanto siano rudi e per nulla pensosi di sé e degli altri gli edili e i villici; dubito, tuttavia, che se andremo ad avvertirli che la guerra atomica fa male, quelli si metteranno a scuotere le teste dialettali, chiosando: «Beh, se lo dicono quelli, qualcosa di vero ci deve essere». Certo, non ci stancheremo mai di ripetere che non si debbono strappare le unghie ai dissenzienti, che è scorretto massacrare civili; tuttavia i concetti mi sembrano piuttosto bene espressi, che non assolutamente nuovi. È fazioso notare che di rado gli appelli hanno un sapore intenso, di rado esprimono propositi aspramente provocatori? Anche Cicerone notava come, per irretire gli animi ad un impetuoso ed effimero assenso, occorre tenersi all’ovvio, movimentare luoghi comuni.

Certo, a firmare o compilare codesti documenti «si ha ragione»; ma non v’è una qualità corruttrice, qualcosa di stranamente degradante nell’«aver ragione», quasi quanto nel vincere una guerra?

[Fonte letturalenta]


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