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Secondo una leggenda da bar, nel cuore del Carso triestino, vicino al confine con la Slovenia, è nascosto un misterioso paradiso enogastronomico che serve i migliori vini e salumi del mondo. È l’osmìza di Darko Zagar, la Mecca delle cantine, un luogo mitico che sembra esistere solo nella fantasia degli ubriaconi della zona. Nessuno infatti ci ha mai messo piede, né conosce la strada per arrivarci. Ma c’è qualcuno che potrebbe fornirvi le giuste indicazioni: il suo nome è Julian Gudowski, pseudonimo di Giuliano Cossu, la maggior guida vivente alle meraviglie della buona cucina del Carso. Incuriositi? Ingolositi? Rimanete pure tranquilli sulle vostre poltrone, perché la verità è ovviamente ben diversa da quella che vi è stata appena ventilata. E la verità ce la racconta proprio Julian Gudowski nel suo breve racconto “L’Osmìza, orrore sul Carso”.
Capita ogni tanto di inciampare casualmente in un ebook che lascia il segno. Solitamente questi casuali inciampi sono abbastanza rari, considerata la quantità industriale di improvvisate autoproduzioni in circolazione. Ma ad uno come me, che raramente si tira indietro di fronte allo scoglio dei 99 centesimi, qualche bella sorpresa può ogni tanto anche capitare. Giusto qualche giorno fa vagavo infatti su Amazon, cliccando annoiato sul quel pulsantino che manda randomicamente ai titoli più simili a quello che si sta consultando. La copertina è stata subito una folgorazione. Non è bellissima? Non c’è da stupirsi: leggo infatti nel suo sito che Gudowski è illustratore di mestiere. Anche il titolo, dal canto suo, mi ha subito incuriosito. Osmìza? Che diavolo è un osmìza, mi sono chiesto? Probabilmente qualche lettore laggiù, nel profondo nordest, a questo punto starà rabbrividendo a causa della mia ignoranza in materia. Spero non sia così grave. Ad ogni modo, a beneficio di quanti come me si stanno ponendo la stessa domanda, riporto qui di seguito la definizione che fornisce il dizionario, la stessa definizione che appare in apertura al racconto di Gudowski: osmìza. – Osteria caratteristica dell’altopiano del Carso, diffusa nella zona di confine tra la provincia di Trieste e la Slovenia, dove si vendono e consumano vini, affettati e formaggi direttamente nelle case dei contadini che li producono. Nella pratica è una specie di agriturismo, se non ho capito male. Ma il dizionario non spiega ovviamente nulla dell’osmìza di Darko Zagar che, tra le tante, ha qualcosa di davvero particolare.
Sempre sul già citato sito, l’autore sostiene che l’Osmìza sarebbe la sua “personale variazione sul tema di Non aprite quella porta: il classico horror in cui i protagonisti finiscono in un luogo sperduto e incivile e fanno una brutta fine”.
Una definizione a mio parere riduttiva: l’Osmiza non è solo questo. L’Osmiza cattura l’attenzione innanzitutto per il suo essere un luogo oltre i confini della leggenda, per quel particolare fascino che esercita ciò che è andato perduto e la cui esistenza sopravvive esclusivamente nei racconti, reali o pretesi, di coloro che affermano di esserci stati o, meglio, di coloro che conoscono qualcuno che afferma di esserci stato. Un luogo che è un non-luogo. Un luogo dimenticato dalle mappe e dalle cronache. Un luogo a cui si può arrivare solo per un caso fortuito, inseguendo la traccia indicata da un simbolo triangolare con una zeta al centro, un simbolo che mai nessuno ha visto. Almeno finora.
Julian Gudowski è bravissimo a farci trovare la strada per la perduta Osmìza di Darko Zagar. È ancora più bravo a coinvolgere noi lettori nella situazione in cui verranno presto a trovarsi i protagonisti mentre, accomodati a tavola dal sinistro gestore, degusteranno i sapori caserecci di quella particolare cucina. Sembra quasi di sentirli sul palato quei sapori e, proprio come avviene nella storia, quella sensazione ipnotica che avvolge la tavola dei commensali sembra quasi giungere a noi attraverso le pagine digitali di questo piccolo ma dannatamente persuasivo libro. Non starò a raccontare altri dettagli della storia. Basti sapere che ciò che si scatena nelle 41 pagine virtuali de “L’Osmìza” è l’orrore assoluto, un orrore che qualcuno potrebbe arrivare a definire insopportabile, un orrore che, pagina dopo pagina, si conferma sempre sorprendente rispetto a quello che ti illudevi di poter immaginare. Dimenticatevi di “Non aprite quella porta”: quello è stato un gioco da ragazzi conclusosi molto tempo fa. Con “L’Osmìza” adesso si comincia a fare sul serio.
“Mi sono divertito a saccheggiare romanzi e film e a rielaborare in chiave locale alcuni tratti distintivi del genere horror. I riferimenti al mondo delle osmize e al territorio sono stati rimaneggiati o stravolti in funzione del racconto. Gli elementi che a mio avviso avrebbero dato alla storia un taglio troppo provinciale – il dialetto, ad esempio – sono stati scartati. Dunque non aspettatevi un fedele spaccato di vita triestina, ma piuttosto un onesto horror carsico: grottesco, pieno di humour nero e disgustoso quanto basta. Naturalmente, il giudizio finale spetta a voi.”
E il giudizio non può che essere positivo. Anche e soprattutto per quell’incredibile finale. Ancora una volta il finale che non ti aspetti, quello che ancora ti illudevi di poter immaginare. Si arriva rapidamente alla parola fine, nemmeno il tempo di gustare tutti gli antipasti e l’Osmìza chiude già i battenti. Peccato davvero che sia così breve ma, pensandoci bene, non avrebbe potuto essere altrimenti. Anche quel finale probabilmente non sarebbe calzato allo stesso modo se fosse arrivato dopo qualche centinaio di pagine. Rimane tuttavia in bocca un retrogusto strano, la vaga sensazione di un sapore che, un po’ come l’Osmìza di Darko Zagar, si è rapidamente perduto.
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