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L’ossessione di scrivere

Da Danielevecchiotti @danivecchiotti

La Ragazza del FestivalbarUna postilla al post precedente sul tema della scrittura in questi tempi di protagonismo delirante, di sociopatia mascherata da voglia di condividere sulla rete il proprio ego che ha bisogno di mostrarsi smisurato proprio perché in realtà è minuscolo, poco sviluppato, fermo allo stato embrionale e, di conseguenza, bisognoso di continue conferme dall’esterno.

Visto e considerato che, come si diceva, il cambiare dei meccanismi di pubblicazione e lettura è degenerato nel caos, e che quindi l’atto di scrivere ha oramai una sua purezza solo quando svincolato da fini editoriali, resta da farsi una domanda: quali sono dunque i reali moventi della scrittura, quale la ragione nuda che ci porta a utilizzare tempo ed energie altrimenti spendibili lottando contro il vuoto di una pagina bianca?

Non scopro certo l’acqua calda affermando questa banalità, ma mi piace ricordare che il principale motivo per cui scrivere ha ancora un suo senso è (o dovrebbe essere) il bisogno di liberarsi delle proprie ossessioni. Raccontare per descrivere ciò che ci affascina o ci disgusta fino a toglierci il respiro, narrare per dare voce alle passioni e agli odi talmente forti da non poter essere gestiti o tenuti a bada.
Amori travolgenti per la loro forza emozionale o distruttiva; ideali politici che fanno apparire sensata la lotta contro i mulini a vento di un mondo che sembra non interessato a modificare i suoi meccanismi; istinti omicidi che, rendendoci pericolosi, è meglio placare uccidendo i nostri nemici solo nelle pagine di un romanzo noir.
O magari ossessioni meno nobili, meno condivise e comuni, apparentemente ridicole, folli o stupide come la parte più vera di noi.

Io, per esempio, ho scritto “Il cosmo secondo Agnetha” per sfogare le mie frustrazioni di aspirante-romanziere e di uomo-sessuale calato in contesti editorial-sociali che tendevano a catalogare tutto secondo etichette preconfezionate. E ho messo insieme “La Signorina Cuorinfranti” quando lo specchio ha iniziato a farmi accorgere che il tempo mi scorreva addosso non solo in senso figurato.

Adesso, da una manciata di anni, non riesco a togliermi dalla testa la Ragazza del Festivalbar. La quale non è solo l’immagine riprodotta su una serie di compilation in vinile uscite tra il 1980 e il 1995, ma anche – e soprattutto – uno strumento di memoria involontaria che mi sembra rappresenti una perfetta via di accesso a un me stesso che, due/tre decenni fa, sono stato senza capir granché di ciò che mi accadeva attorno e dentro; un me stesso inconsapevole di sé che invece oggi, con un pizzico di esperienza in più, sento di poter ritrovare e magari comprendere osservandolo da fuori.

Così, dopo aver cercato per mercatini dell’usato tutti i 33 giri con quella copertina, dopo aver tormentato con le mie appassionate, logorroiche email il pittore Gianni Trincanato, autore del disegno originale, dopo aver sparso il ritratto della Ragazza del Festivalbar in ogni ambiente che frequento, eccomi qui a lottare contro un ipotetico romanzo che chiede di prendere forma perché questo magnifico delirio tutto da sviscerare possa trovare la sua strada per liberarsi di me, liberandomi una volta per tutte.


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