Dilaniata dagli scandali interni, detti anche Uaarleacks, che abbiamo puntualmente segnalato -ricordiamo in ordine i più recenti: ipocrisia nel combattere il meccanismo dell’8×1000 e contemporaneamente voler inserirsi tra i possibili destinatari; epurazione dei responsabili eretici; presenza di neopagani tra i dirigenti; intrallazzi con i neofascisti di Casapound e gli sfasciavetrine di Acrobax; presa di distanze dal Forum ufficiale per vergogna verso i propri utenti e per allontanarsi da un luogo di critici della propria dirigenza- l’associazione ha perso tantissimo in termini di credibilità, sopratutto al suo interno (all’esterno non ne ha mai avuta molta): sono stati infatti gli stessi membri a rendere pubblico tutto il marcio creatosi in questi anni.
Certamente la dirigenza dell’Uaar è consapevole di tutto questo, peccato che per tentare di tappare le falle abbia intrapreso una strada a dir poco imbarazzante, sopratutto perché tale maldestro tentativo è stato “portato alla luce” ancora una volta dai suoi esasperati membri e tesserati. Sul Forum dell’associazione, infatti, un utente ha rivelato che l’Uaar per tentare di risollevare la reputazione si è affidata ad esperti per la consulenza dell’immagine, come fa chi ha un prodotto da vendere sul mercato. Il responso di questa sorta di Casaleggio & Associati dell’immagine non è stato certo positivo: «Il Brand Uaar a nostro avviso non esiste ancora in senso Full, ma solo come Pre Brand, cioè con i valori e le attribuzioni che si sono stratificate “spontaneamente” nel tempo», scrivono. «L’Uaar si connota, nel complesso, per tratti doveristici [...]. Non c’è divertimento, leggerezza, allegria, ma ferrea finalizzazione agli obiettivi. Un carattere un po’ noioso, anche se irreprensibile. Emerge anche un tratto di “durezza” e di poca flessibilità. Prevale l’atteggiamento di contrapposizione frontale anche aggressiva anziché una strategia di “seduzione” (“Esisto perché sono “contro” qualcosa e non perché sono “a favore di qualcos’altro””)». L’analisi è corretta, purtroppo il caratterizzarsi dal proprio ”essere contro” è il problema di ogni associazione ed espressione ateista, non avendo argomentazioni positive da proporre.
Ma andiamo avanti a leggere: «L’immagine Uaar può essere al momento associata a parole come serietà, razionalità, impegno, consapevolezza, chiusura, schieramento, aridità, burocrazia, impersonalità, dovere, noiosità [...]. I modi in cui comunica sono incoerenti sia dal punto di vista della forma, sia da quello dei contenuti [...]. Manca una strategia strutturata e ingegnerizzata». Innanzitutto, scrivono gli esperti, per migliorare il “Brand approach” dell’Uaar, «bisogna smontare l’idea che l’Uaar esprima disvalori (convincimento personale); bisogna smontare l’idea che aderendo alla proposta Uaar si corrano dei rischi (esternabilità sociale); bisogna far salire la causa Uaar nel ranking delle priorità (soglia di attivazione personale e mediatica)». C’è assolutamente bisogno che l’Uaar competa per «attrarre nuovi iscritti», perché «è in una fase di stallo. Non ha abbastanza iscritti per sostenere una crescita per linee interne, e non ha potere attrattivo verso nuovi potenziali a causa di fattori intrinseci (quello che esprime l’immagine in sé: bassa rilevanza argomentativa, doverismo, aggressività, old fashion) ed estrinseci (scarsa capacità di rimuovere il freno al coming out da pressione ambientale e scarsa capacità di controbilanciare la bad publicity stratificata nel tempo sul concetto di ateismo)».
Come fare allora per “sedurre” nuovi “clienti” e vendere di più il “prodotto”? Ecco la risposta: «la sua mission dovrebbero essere i diritti umani [...], la sua personalità deve caratterizzarsi per l’apertura mentale, con uno spiccato orientamento all’innovazione; per il carattere solare e trasparente, ricco di energia propositiva; per l’attenzione al lato umano, la facilità di socializzare e di creare consenso; per l’estroversione (ma senza istrionismo); per il piacere di dirigere con coraggio e rispetto, ma senza smania di comandare; per l’attitudine ad apprezzare il lato piacevole della vita; per l’onestà intellettuale, ma senza derive di “noiosa” political correctness – al contrario, con tratti di impertinenza gustosa; per un registro ironico, anziché per l’aggressività o il sarcasmo. L’immagine Uaar dovrebbe essere associata a parole come credibilità, apertura mentale, coerenza, colore, dinamismo, carisma, chiarezza, solarità. Con l’essere brillanti e sulla cresta dell’onda [...]. Si dovrebbe mettere in scena un mondo bello e normale: talmente normale da essere sorprendente». Mai sentita tanta retorica tutt’assieme, un linguaggio assurdo che di fatto significa nulla o poco più.
Certo, in molti hanno parlato male dell’Uaar, ma mai come i propri consulenti d’immagine, i quali -ripetiamo- hanno detto che l’associazione in questi 24 anni di militanza sfrenata è apparsa: “noiosa”, “non flessibile”, “non strutturata”, “con pochi iscritti”, “con poco potere attrattivo”, “con bassa rilevanza argomentativa”, “aggressiva”, “old fashion” (ovvero anacronistica), “incoerente” ecc. Sostanzialmente possiamo dire che l’esistenza dell’Uaar è stata un autogol del movimento ateo, tanto che -sempre secondo quanto rivelato sul forum dell’associazione- nel Consiglio direttivo del 19/05/12 si è deciso di cambiare radicalmente tutto: «l’Uaar fa propri gli obbiettivi di comunicazione individuati» dagli esperti dell’immagine. «D’ora in poi», viene deciso dalla dirigenza, «la comunicazione esterna sarà improntata a professionalità e caratterizzata da adesione a tali obbiettivi e alle linee guida successive», e dunque «il principale obbiettivo dei prossimi anni, quello su cui focalizzare l’impegno associativo, sia quello di togliere dai cittadini atei e agnostici lo stigma sociale che li caratterizza negativamente». Di questo presunto stigma sociale parleremo più sotto. Infine, per tentare di arginare il loro più grande problema, hanno stabilito che «dovrà essere chiaro che ogni spazio Uaar sarà precluso a messaggi off topic, o contenenti insulti, diffamazioni, volgarità gratuite». Gli atei integralisti si impegnano dunque a diventare moderati, peccato che abbiano già tradito le loro promesse, rincominciando con il loro delirio anti-teista, così come li abbiamo conosciuti.
I forumisti uaarini non l’hanno comunque presa bene: «mi fa un po’ specie ridurre tutto a una pura questione di immagine, come se le idee fossero esclusivamente merce, alla “sono ateo, perché io valgo”, “enjoy atheism” “think different, think atheist” “forza Uaar, per un nuovo miracolo laico”, come se metodi e contenuti fossero diventati irrilevanti», scrive ironico un utente. La delusione per essere trattati come “pesci che hanno già abboccato” è palese in molti commenti: «lo studio dice semplicemente: vecchio così come stai messo non puoi permetterti nuovi barchini per incrementare il pescato; spetta un po’ che ti dico io dove spostarli che lì si trova più pesce, nel frattempo eccoti delle regolette per rendere la tua flotta più efficiente». Un altro si domanda: «forse anche gli atei, come l’Uaar, sono considerati un brand?», ricevendo questa risposta: «Sinceramente, mi viene da vomitare all’idea che si sia considerati un “oggetto da vendere” e quindi da “rendere accattivante”. Se devo dirla tutta nemmeno la Chiesa ha degli atei una così scarsa considerazione».
C’è anche chi ha criticato l’unico obiettivo che vuole ora darsi l’associazione, ovvero l’eliminazione dello stigma verso gli atei: «Ma che minchia di stronzata è? Del fatto che io sia ateo o meno, non glien’è mai fottuto una cippa a nessuno. Qualcuno di voi è stato “socialmente stigmatizzato” per il fatto di essere ateo? In Italia, dopo la fine del ’800?», si è chiesto allibito un utente. E ancora: «Un’associazione con obbiettivi culturali e politico/sociali va dietro a strategie di marketing adatte a vendere mutande. Mi sa che siamo parecchio fuori strada». Un altro, infine, nota con ragionevolezza: «Inutile sottolineare quanto risulti surreale e sorprendente che coloro che vengono ora a parlare dell’importanza dell’immagine dell’Uaar siano gli stessi che poco tempo fa non si accorsero minimamente che organizzare lo sbattezzo a Casapound (cosa che non andò in porto, per merito di Casapound) avrebbe causato un enorme danno d’immagine all’associazione».
Condividiamo lo stupore di molti forumisti: chi ha davvero un messaggio importante da comunicare, non si affida certo ad un consulente d’immagine per migliorare artificialmente la propria credibilità. Il messaggio cristiano, ad esempio, non si è certo diffuso nel mondo grazie a strategie di marketing, anzi ha iniziato il suo percorso dalle persone ritenute meno credibili del tempo: poveri pescatori e donne. E’ inoltre è abbastanza squallido che l’ateismo venga trattato dall’Uaar come un “prodotto da vendere”, che l’associazione sia definita “brand”, ovvero un “marchio”, che dunque il loro sito web sia il “negozio” e che si cerchino strategie giovanili per accalappiare e “sedurre” possibili clienti-allocchi. D’improvviso si è deciso di mettere le lucine colorate fuori da un negozio di pessima reputazione per far passare l’idea che all’interno ci sia una nuova associazione di atei, questa volta accattivante e rivolta ai tanto agognati cccciovani, non seriosa, non rigida, ma allegra, simpatica, che faccia battute spiritosissime e che i soci siano gente che si batte sempre il “cinque” facendosi l’occhiolino.
Secondo loro non è il messaggio che ha fallito, che non è adeguato all’uomo, ma è il comunicatore che non sarebbe vestito abbastanza alla moda, tanto che attira soltanto capelli bianchi e amanti dello sfogo online (e non solo). Attendiamo fiduciosi i risultati di questa nuova strategia di proselitismo.