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Quei dati e quegli incontri sono serviti per raccontare una storia che non ha nulla del reportage e non è nemmeno un romanzo storico. L'ultima madre è un romanzo d'amore e resistenza; è un libro sulla ricerca della verità e sulla memoria.
Sono tre le grandi protagoniste. María è il vertice forte della trinità al femminile creata da Giovanni Greco. È una donna semplice, che vive in un barrio popolare di Buenos Aires insieme al marito muratore di origini italiane e e ai figli Pablo e Miguel. Mercedes è il vertice malato. Figlia e sposa di alti ufficiali del regime militare, appartiene alla migliore società argentina, ma ha «la pancia di ghiaccio»: è sterile. In preda a una follia che la conduce a una gravidanza isterica, il padre trova il modo di darle due gemelli, Mari e Nacho, nati dal ventre di una militante imprigionata e torturata di nome Irene. Irene il vertice sfuggente e insieme l'origine invisibile della storia. Invisibile come la città a cui Calvino (citato in epigrafe) diede il nome: «Irene calamita sguardi e pensieri di chi sta là in alto. […] Irene è un nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia. La città per chi passa senza entrarci è una, e un'altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s'arriva la prima volta, un'altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene». Nel groviglio di interrelazioni che il romanzo discioglie poco a poco, Irene è la madre cancellata che ritorna e trasforma. È la donna che proviene dal mondo delle ombre e risale alla memoria, offrendo in dono la verità. Penso ad esempio a Mari che, dopo la morte del fratello gemello, recupera la propria identità di figlia di Irene. Nell'Ultima madre ci si aggira tra violenze, menzogne, miraggi e ombre, alla ricerca di una verità che può assumere una dimensione edipica. Ma «la nostra scienza discende dall'osservazione delle ombre», scrive l'Ezra Pound ricordato da Greco. Le madri di Plaza de Mayo hanno vissuto tra ombre, ne sono abitate, ma hanno voluto osservarle. Ha voluto farlo María, “doppio” costruttivo e fertile di Mercedes. Le storie delle due donne si avviluppano le une alle altre lungo la corda ritorta di una linea temporale sconnessa. L'autore alterna capitoli dedicati ora all'una ora all'altra, per di più segnati da una sfasatura temporale che continuamente slitta dagli anni Settanta al 2011, senza apparente soluzione di continuità. Una sfasatura che dice l'inconciliabilità di due dimensioni, ma anche il necessario ritorno al passato per rivivere, comprendere e disperdere le ombre persistenti. Dice il percorso doloroso ma ostinato alla ricerca di un vertice saldo, di radici ferme, di un'identità ri-costruita attraverso la memoria ritrovata. Una prosa musicale informa il racconto come un'onda che il tempo discreto e «strangolato» non potrà mai fermare. È l'onda del liquido materno, del cordone ombelicale che vi nuota e lega una madre al figlio da nutrire. È un mare di onde più forti di qualunque violenza della storia. A sommuoverle è l'oralità di un cantastorie moderno e raffinato, che sceglie la terza persona, ma se vuole, silenzioso e inavvertito, scivola nel cuore dei suoi personaggi. Ne assume il punto di vista e la voce, che fonde alla propria. E poi torna all'aperto. È così tutto un susseguirsi ininterrotto di maree, mimate da un dettato in cui la lingua, diretta e piana, nuota in una sintassi liquida, che scorre incessante in forza di un suo ritmo immanente. È grazie al cantastorie che si amplifica ed espande la storia di María, «di quelle che i capelli si tagliano con la luna nuova perché crescono più forti», “ultima madre” soprattutto perché massima somma di tutte le madri. Lei che, ormai anziana, ha ancora «la pancia, quella sua pancia, quel suo ventre, come attaccato a un lungo osso spolpato, che è gigantesco, quello di una donna che conta gli ultimi giorni, maledice le ultime ore prima di partorire. Sì, una bella pancia a punta, che si dice sarà femmina, che non ci sta più sotto il vestito come tutte le pance di tutte le donne che maledicono con un sorriso gli ultimi minuti prima del parto – una pancia sopra la quale, ogni tanto, quelle mani spinose passano e ripassano e poi d’un tratto si fermano a cercare di capire se per caso non sia tutto uno scherzo quei nove mesi…». Il termine del romanzo, il sipario cala bruscamente: «ed è la fine, l’ultimo istante, l’ultimo rintocco, l’ultima porta che si apre al sorriso dell’ultima m». Ma è solo una sospensione. Il cantastorie, legato a doppio filo alla storia delle madri, ora tace. Però sa che c'è ancora da raccontare. Qualcun altro di coloro che «resistono senza speranza», a cui Greco dedica il romanzo, prenderà voce, o gliela presterà un nuovo cantastorie. Perché María, l'ultima madre che incarna tutte le madri, vive ancora, «in quel corridoio, quello stesso corridoio che accoglieva in silenzio stretto la sua fitta che si ammorbidiva ora tra i mille sguardi diversi che le arrivavano dalle pareti, che ora era tutto tappezzato di foto, il piccolo corridoio, da cima a fondo, dalla stanza alla porta, dal soffitto al pavimento… Di nuovo era lì, è lì immobile, María, in quel corridoio, il corridoio di una vita, circondata dalle foto di una vita che lei stessa ha appeso una dopo l’altra, una sull’altra, in tanti anni dopo quella mattina, fino alla sera prima, tante foto che si tolgono l’aria a vicenda, si sovrappongono le une alle altre, formando strane figure, inventando incontri impossibili, accostando passato e futuro».
(già qui: http://www.sulromanzo.it/blog/l-ultima-madre-di-giovanni-greco)
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