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L'ultima poesia

Creato il 04 febbraio 2012 da Giuseppe7405

Aveva deciso che quella sarebbe stata l’ultima poesia che avrebbe scritto nella sua vita. Da qualche tempo non aveva più la solita ispirazione: scriveva meccanicamente, solo per togliersi dagli occhi quel foglio bianco steso davanti a lui, la cui vista gli dava nausea. Allora, appena la penna cominciava a macchiare la pagine, si sentiva il suo aspro rumore contro il tessuto del foglio, e la frenesia della mano che la guidava. Scriveva con rabbia, calcando la mano, come per incidere ferite sanguinolente nella “carne” di quel maledetto foglio bianco. Quando si fermava, esausto, la mano era sudata e il callo dello scrittore sempre più dolente. Gli bastava scrivere tre, quattro versi, in modo da non vedere più quella carta bianca stesa sullo scrittoio. Era sufficiente un po’ di inchiostro: così il foglio diventava inutilizzabile e non era più un’offesa per lui, un affronto alla sua creatività.
Sapeva che per uno scrittore la fine dell’ispirazione è la cosa peggiore che possa capitare. Per lui, poi, che era il Grande Poeta, si trattava di una tragedia, perché scriveva poesia, non romanzi o racconti. Chi scrive in prosa, pensava, può “allungare” il racconto se non ha idee; oppure, può perdersi in descrizioni minuziose dei personaggi, delle ambientazioni, in modo da rendere il racconto più ampio. Chi scrive in prosa, se è un autore abile ed esperto, può camuffare la sua mancanza di ispirazione, ingannare i suoi lettori, e riempire fogli interi di parole.
Lui no, lui non poteva fare così: non poteva “allungare” i testi, poiché scriveva solo quello che proveniva dal suo spirito. Non descriveva nulla, non raccontava fatti, ma donava forma e consistenza a qualcosa di impalpabile, a ciò cui è difficile dare persino il nome. Invece, da mesi non riusciva più a scrivere un verso che fosse quantomeno valido. Temeva di ripetersi in modo meccanico e monotono…
Qualche giorno dopo lo invitarono a una conferenza sul senso della poesia nel mondo di oggi. Subito l’aveva colto un brivido, perché si era reso conto che a quella questione lui non aveva mai pensato. Che ne sapeva della poesia “oggi”? La poesia non vive “oggi”, né “ieri”, né “domani”, la poesia è imperitura, non cambia con i tempi. Mutano le forme delle parole, non quello che vogliono significare…
Si mise a scrivere una relazione per smentire la tesi su cui si basava quel congresso di letterati dilettanti. Lo fece per vedere se era ancora capace di creare parole. Ma dopo aver scritto una pagina si accorse che le idee gli mancavano. Aveva aggredito il foglio di carta con entusiasmo quando s’era trattato di schizzare i punti salienti di quella che sarebbe dovuta essere la sua relazione. Poi, apprestandosi a metterla in bella forma al computer, si era bloccato. Come gli succedeva da un po’ di mesi, gli mancavano le parole. Ma perché? Non stava scrivendo una poesia, bensì una relazione, ossia un testo in prosa. E non stava usando la penna, dunque non poteva essersi già stancato per il dolore alle dita. Ma non ci fu nulla da fare, il cursore rimaneva fermo, saltellante ed etereo, sullo schermo, e il documento era composto da una sola pagina.
Il sole quella sera tramontò sulla sua perplessità priva di parole. Una volta aveva definito la perplessità della sera come “la stanchezza soddisfatta di chi ama le parole”. Una definizione non originale, forse, ma che gli era parsa azzeccata. Quella sera, tuttavia, la sua stanchezza era livida, irosa, impotente, perché la sua mente era desertificata, brulla, orfana di parole da mettere in versi.
Si alzò dalla sedia e decise che doveva punirsi per quella giornata spesa senza aver scritto nulla di consistente e valido. Si tolse la cintura dei pantaloni, si spogliò e cominciò a fustigarsi, dandosi cinghiate violente sulla schiena. Fece in modo di essere colpito dalla fibbia. S’inferse dieci frustate; poi, mentre gli occhi lacrimavano e la schiena gli doleva, si diede altri dieci colpi per punirsi del sussulto d’orgoglio che lo aveva colto quando aveva ricevuto la comunicazione di essere stato invitato a parlare a quel convegno. Si era trattato di un breve istante di gioia, ma contravveniva al suo proposito di evitare la notorietà fragile degli uomini, causa dell’invidia e della malvagità. Le rare volte in cui aveva letto le proprie poesie in pubblico, aveva sempre guardato gli astanti con commiserazione; quando costoro, alla fine, lo avevano applaudito, egli li aveva compatiti in silenzio: gli facevano pena, perché non sarebbero mai stati capaci di scrivere alcunché, e avevano bisogno delle parole altrui per sentirsi vivi.
Passarono altri i giorni senza che scrivesse nulla di serio. Si alternavano i momenti di sconforto, quelli nei quali ogni cosa gli sembrava perduta, a momenti nei quali, con rabbia, si flagellava. Era impietoso verso se stesso, anche perché la fragile sensazione d’orgoglio per quell’invito al convegno non si acquietava: credeva ormai di aver superato tutte le bassezze della specie umana, le meschine necessità dell’uomo materiale. Da tempo rifuggiva le donne, non le toccava da anni e, quando ne incrociava una in strada, cambiava direzione, o volgeva lo sguardo dall’altra parte. Gli erano quasi indifferenti ormai, ma aveva dovuto faticare parecchio per estirpare il desiderio di unirsi a loro. Da anni mangiava pochissimo, senza badare a quel che capitava nel piatto: per non inquinare la casa con l’odore del cibo cucinato, pranzava spesso in una trattoria da due soldi, sotto casa. Per lui nutrirsi era un impiccio, tanto che qualche volta si scordava anche dell’appuntamento con il cibo: era il suo stomaco, un vero traditore, a richiamare il lui la sensazione della fame. E così si rassegnava a scendere in strada e andare in trattoria, di malavoglia. Lo stomaco era l’unico organo “carnale” che non riusciva quasi per nulla a dominare. Il suo cuore batteva in modo monocorde, segno che era diventato capace di evitare le emozioni inutili, quelle che distraggono e danneggiano la creatività. I bisogni corporali erano stati rigidamente fissati a orari precisi. Non si permetteva mai di scaricarsi in orari sbagliati. Si educava a trattenere lo stimolo fino allo spasimo, pur di non cedere. Ci riusciva spesso. Ma l’apparato digerente non poteva essere ridotto all’obbedienza in nessun modo: benché egli si sforzasse di educarlo alla sobrietà, quello si faceva sentire più volte al giorno, e non badava a orari, né si affievoliva nelle privazioni. Al contrario, i digiuni cui si sottoponeva per allontanare la sensazione della fame, non facevano altro che accrescere questa stessa sensazione.
Per sua fortuna, invece, molte delle passioni fatue e inutili che rovinano la vita degli uomini, distogliendoli dalle occupazioni più nobili, in lui erano state quasi del tutto estirpate. La poesia era il mezzo per sublimarle: anche se una di queste passioni cercava una via d’accesso verso la soglia della coscienza, l’immersione nella trance della creazione letteraria la ricacciava indietro, nella nullità di ciò che l’uomo non conosce del proprio animo. A volte, dunque, scrivere era un modo per anestetizzarsi, ma soprattutto per lasciare libero sfogo alla creatività, alle idee elevate, ai concetti, alle sublimi sensazioni del suo spirito. E il foglio si riempiva di versi eccelsi, che strappavano lacrime ai lettori, e le librerie vendevano i suoi libri, facendogli ponti d’oro affinché lui partecipasse alle presentazioni che essi organizzavano. Ma lui disprezzava questi librai: sapeva che lo adulavano solo perché volevano ottenere un vantaggio economico dalla vendita dei suoi testi. Se le sue poesie non fossero più state vendute, quelli gli avrebbero voltato le spalle.
Il disprezzo verso gli altri e verso il proprio corpo era l’unica maniera di vivere. E di scrivere. Nelle giornate vuote, quelle durante le quali non aveva scritto nulla di valido, non si limitava a fustigarsi. Qualche volta cercava invece di degradarsi, di umiliarsi. Si era comprato due ciotole per cani; naturalmente non possedeva nessun cane: nei giorni in cui pensava fosse necessario suppliziare il suo animo, riempiva una ciotola di cibo, l’altra d’acqua, e si costringeva a mangiare e a bere come un cane. Comprava allora scatolette di cibo per cani, evitava di compare cibo “umano”. E beveva quell’acqua, con la lingua, senza usare le mani. Non solo: un giorno che era particolarmente arrabbiato con se stesso, si chiuse fuori casa e dormì sullo zerbino. Era inverno, ebbe molto freddo, ma la cura ebbe i suoi effetti: tre giorni dopo portò a termine l’opera che molti critici consideravano il suo capolavoro, il poema intitolato Il letto della viltà.
Il giorno della conferenza giunse puntuale. Il Grande Poeta si svegliò alle sei. Aveva scritto dieci pagine fitte di considerazioni sulla poesia contemporanea. Ma aveva nausea di se stesso: quel lavoro aveva sottratto energie e risorse alle sue poesie. E poi non sopportava che il suo orgoglio rialzasse di frequente la testa, giacché continuava a sentirsi gratificato da quell’invito. Per questo si era flagellato sempre nelle sere precedenti prima di mettersi a scrivere la relazione. Da giorni dormiva male perché la schiena era piena di piaghe dolenti. Quella mattina si accorse con sgomento di essere pallido, sciupato, con le borse sotto gli occhi; aveva la bocca impastata di dolore: ogni movimento ormai gli provocava delle fitte che gli toglievano il fiato. Pensò di aver esagerato con le punizioni corporali, ma si disse che quella terapia d’urto sarebbe stata il miglior rimedio contro quell’orgoglio, nemico della vita sana, tranquilla, serena.
Camminava a fatica, non riusciva a tenere la schiena diritta. Pensò che avrebbe avuto bisogno di un busto che lo tenesse in piedi o di un bastone. Ma non voleva dare l’impressione ai congressisti di essere un uomo debole, consumato dalla lettura, dalla scrittura e dallo studio. Si diede alcuni schiaffi sulle guance, poi si lavò la faccia con acqua gelida, in modo da restituire a esse colore e tono. Poi decise per una doccia con acqua gelata, in modo da alleviare il bruciore alla schiena per le cinghiate che si era dato. Infine, si vestì con una camicia che gli stava stretta, fece un robusto nodo alla cravatta e uscì, prima di fasciarsi in una giacca che non usava dai tempi dell’università, dodici anni prima.
Sul marciapiede affollato del lunedì feriale sembrava un manichino. Rigido, impettito, camminava senza coordinare i piedi, tanto ogni movimento delle gambe gli provocava dolore. Pensò che non sarebbe tornato a casa prima di quattro ore, sempre che non lo avessero invitato al pranzo ufficiale per l’associazione Cenacolo Poetico Provinciale. Anzi, pensò quasi in lacrime, era certo che l’avrebbero invitato: per distrarsi, si diede il compito di pensare, durante il tragitto, alla scusa giusta da inventare per giustificare l’assenza al pranzo. Calcolava che, a piedi, ci avrebbe messo trenta minuti per arrivare alla sede del convegno. Dato che avrebbe parlato per secondo e che aveva quindici minuti di tempo, si disse che in capo a due ore sarebbe potuto tornare a casa. Ma avrebbe dovuto inventare una scusa inoppugnabile. Cercò di pensare con gioia al sollievo che avrebbe provato, quando sarebbe rincasato, ma subito si rabbuiò, perché quel desiderio di benessere fisico gli parve un colpo basso del suo corpo che approfittava di quel momento di malessere per tornare a presentare le proprie rivendicazioni. Al ritorno l’avrebbe punito a dovere, quell’ammasso di carne e pelle.
Alla fine la relazione gli era venuta bene, ma temeva di essere stato eccessivamente tecnico per il pubblico che avrebbe assistito: di certo non lo avrebbe compreso nessuno. Ma a lui che importava? Erano stati loro ad averlo invitato, lui se ne sarebbe rimasto volentieri a casa, a curarsi l’incapacità di poetare che lo aveva colto da qualche tempo. Anche perché la sera prima, dopo essersi fustigato e aver dato l’ultima ripassata alla relazione, aveva buttato giù alcuni versi che giudicava interessanti. Non erano ancora del suo solito livello, ma credeva che potessero costituire una buona base di partenza per un’altra poesia memorabile. Era forse guarito? Non poteva ancora affermarlo; tuttavia quel foglio ferito da dieci righe nere gli aveva restituito un po’ di fiducia verso se stesso. Per questo aveva deciso che, a conclusione della sua relazione, avrebbe letto all’uditorio quei versi, in modo da verificare l’effetto che avrebbero provocato. Non che giudicasse il valore dei suoi versi in base al gradimento del “pubblico”, verso il quale nutriva un paziente disprezzo. Anzi, riteneva i suoi versi migliori quelli che non avevano mai riscosso applausi. Ma desiderava leggere i propri versi per dire a se stesso: “ci sono!”. Tanto sapeva che il pubblico, sprovvisto di qualsiasi senso critico, avrebbe applaudito in modo stupido: sapeva che quei versi, che lui giudicava discreti, sarebbero stati invece giudicati eccelsi da quei dilettanti. Fece una smorfia di disprezzo, poi affrettò il passo in quel lunedì di sole.
Il pubblico in sala lo accolse con applausi scroscianti. Le strette di mano si sprecarono. Il presidente dell’associazione lo abbracciò con trasporto, come se vedesse un vecchio amico. Si stupì dell’accoglienza: nonostante si fosse isolato dal mondo, era ancora benvoluto, amato. Glielo aveva confermato il giorno prima la lettera del suo editore che conteneva le cifre che gli sarebbero toccate quale compenso per diritto d’autore.
Certo, quel convegno, fin dall’inizio, si presentò come una tortura. I dolori alle ossa e alla schiena gli toglievano il fiato e le strette di mano, gli abbracci, i baci sulle guance non facevano altro che accentuare questi dolori. Non sopportava i profumi, l’odore di dopobarba che lo investiva con folate assassine, intasando il suo naso e offuscando la sua mente. Per questo non sapeva cosa rispondere a chi gli stringeva la mano, né cosa dire al presidente dell’associazione. Questi era alto quasi due volte lui, aveva la testa lucida, un paio di baffi da agente immobiliare e uno sguardo felino che non incuteva fiducia; ma era un suo grande sponsor, e dunque lui, il Grande Poeta, accettava a malincuore le adulazioni di quell’individuo che non amava.
Poi tutti tacquero quando salì sul palco. Un pensiero dolce lampeggiò in lui: si avvicinava l’ora in cui sarebbe potuto tornare a casa, tra i suoi libri e le sue parole vaganti, i fogli di carta bianchi. Era il suo momento. Quindici minuti per lui, per dimostrare alla massa quando essa fosse aliena da lui, il Grande Poeta.
Sostenne una tesi precisa: la poesia non ha tempo, la poesia non ha una nascita, né una data di morte. Possiede un carattere universale, eterno, presso tutti i popoli, in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Fare poesia è qualcosa che sorge in modo spontaneo nell’uomo colto, sensibile, attento alle sfumature dell’esistenza; poi, aggiunse che, naturalmente, sono pochi coloro che scrivono realmente dei versi. Altri si dilettano con mezze frasi, ma solo pochi eletti sono in grado di verseggiare.
Aveva esposto queste tesi senza alzare gli occhi dal foglio. Percepiva il sudore nella schiena e sulla fronte. Avvertiva altresì una sensazione strana che gli dava parecchio fastidio; all’inizio si era trattato di qualcosa di lieve, cui non aveva dato peso. Con il passare dei minuti, invece, quella sensazione di fastidio divenne più concreta, perché s’accorse che era provocata da qualcosa che non era mai accaduta nelle sue (rare) partecipazione a convegni come oratore esperto di poesia: si era accorto, infatti, che nella sala c’era un brusio insistente. Per questo si era fermato due o tre volte per guardare la platea, come chiedendo silenzio. Invece di tacere al suo cospetto, molti tra il pubblico parlavano. Eccezion fatta per quelli seduti in prima fila, gli altri o ascoltavano distrattamente o per niente. Qualcuno sussurrava qualcosa all’orecchio del vicino di poltrona, qualcun altro sorrideva, in modo irriguardoso.
Fuori di sé dallo stupore e dalla rabbia, gettò un’occhiata severa al presidente dell’associazione. Questi si alzò e fece agli astanti segno di tacere, dicendo che non era un comportamento rispettoso verso chi parlava. Ma la platea non si quietò. Anzi, un signore anziano, vestito con un maglione a rombi, affermò che non era venuto per ascoltare una lezione, bensì per sapere quale fosse lo stato della poesia contemporanea secondo l’opinione di quello che si credeva essere un eminente poeta. Una ragazza dai capelli gialli e dalla bocca volgare, addirittura gli puntò contro il suo dito, sostenendo che quelle tesi erano aria fritta, roba vecchia.
A queste parole lui ebbe l’impressione di cadere per terra. Il respiro divenne sempre più affannoso e non riuscì a ribattere nulla. Lo feriva soprattutto il linguaggio sciatto che la ragazza aveva utilizzato (“aria fritta”, un’espressione volgare, quotidiana), dimostrando scarsissimo rispetto per le parole, per la dignità del linguaggio. Ebbe l’impulso di andarsene via indignato: non sentiva quasi più alcun dolore fisico, ma soffriva per lo sfregio delle parole, del loro valore. La platea era in subbuglio: alcuni partecipanti discutevano animatamente fra loro, mentre altri, rivolgendosi all’oratore con un’espressione del viso minacciosa, gli intimarono, facendolo inorridire perla sciatteria dell’espressione, di “abbassare la cresta”.
Il poveretto, solo sul palco, non credeva ai propri occhi. Pensava che sarebbe stato accolto con gli usuali applausi scroscianti, perché avrebbe certamente detto qualcosa di fondamentale. Anzi, temendo che il suo discorso risultasse troppo difficile per la platea, aveva cercato di renderlo più fruibile semplificando l’esposizione. E già pregustava il sapore del successo: certo, sarebbe stato un trionfo volgare, materiale, ma a cui teneva, quantomeno per dimostrare di saper stare al mondo e di saper tenere a bada la plebe. E invece…
Il subbuglio in platea continuava, mentre lui soffriva sul palco: i dolori alle ossa erano ritornati, e l’abbattimento era sempre grande. Alla fine il presidente dell’associazione, salì sul palco e, rivolgendosi con ampi gesti delle braccia verso i convenuti all’incontro, chiese che gli prestassero attenzione. Con fatica riuscì a ottenere un silenzio quasi assoluto, interrotto solamente da un leggero mormorio. Spiegò che si trattava di un equivoco, che l’illustre oratore non intendeva accusare loro, poeti dilettanti, di non essere all’altezza della poesia, e che le sue affermazioni naturalmente potevano essere criticate, ma con misura. Infine, annunciò che “l’illustre oratore, nonché nostro amato poeta”, avrebbe recitato alla platea alcuni suoi versi recenti.
Il silenzio divenne allora assoluto, carico d’attesa; lui, il Grande Poeta, l’uomo che disprezzava le folle e il successo mondano, ansimava all’idea di dover esporre i propri versi a persone che poco prima si erano prodotte in quello spettacolo di urla e contestazioni. Fino al giorno prima, forse, davanti alla prospettiva di subire una contestazione sarebbe stato felice, perché avrebbe potuto così estirpare dal suo animo quell’odiosa tendenza a cercare il successo che talvolta ancora lo ghermiva. In quel momento, invece, si accorse di tremare davanti a quelle persone di cui avvertiva l’ostilità. Si avvicinò al leggio, barcollante. Guardò davanti a sé, nella luce della sala, ma non vide nulla, ogni cosa appariva immersa in una caligine biancastra. Cominciò a leggere i suoi versi, quei versi che credeva gli avrebbero solo donato applausi:
Una riflessione che non va giù,
e galleggia in gola, senza pietà.
La stazione deserta, spenta, inerte
e la noia distinta dell’ignoto
bacia i semafori verdi.

Si fermò respirando a fatica: avvertiva, oltre la cortina della sua confusione, l’ostilità strisciante della platea. Comprese che i nuovi mormorii che sentiva esprimevano disprezzo per il suo lavoro di poeta. Fu il colpo di grazia. Capì che la sua crisi non era una semplice crisi di ispirazione, bensì la definitiva rivelazione agli altri della sua mancanza di talento. In quegli anni lui aveva dunque ingannato tutti, spacciandosi per Grande Poeta; ma un pubblico di sempliciotti aveva scoperto il suo imbroglio. Non era più un Grande Poeta, anzi, non lo era mai stato, aveva sempre gettato fumo negli occhi altrui. Era stato un bravo prestigiatore, un uomo che aveva usato le parole per i propri comodi. Non un poeta. Ora che l’inganno era stato scoperto, l’ignominia sarebbe caduta su di lui.
Se ne andò dalla sala del convegno senza nemmeno più udire le voci ostili dei suoi detrattori, gli applausi dei pochi che ancora lo sostenevano, né le accorate parole del suo amico presidente che cercava di consolarlo. Corse verso a casa, pieno di dolori alle ossa, disperato e cosciente della fine della sua vena d’artista. Aveva scoperto d’essere un imbroglione. Giunto a casa sua, si sdraiò sul divano e morì.

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