Magazine Diario personale
Sento profumo della zuppa di ceci che mi faceva la mia mamma. E' quasi novembre. Sento nell'aria quell'umidità spessa che che c'è attorno ai campi di mais quasi secchi, quelli che non hanno ancora trebbiato, stocchi a volte duri, altre fragili, isolati in mezzo alla campagna scura dei campi ormai scoperti, pronti alla nuova semina o o già incubatori di nuova vita. Loro sembrano dimenticati dal contadino, in altre cose preso; lasciati lì a seccare completamente, a morir soli. Se passi loro accanto, senti un innaturale connubio tra secco e umido. Un odor di muffe che stan lì ad aspettare il loro turno prima di prender possesso di tutti quegli organismi che stanno terminando la vita, indeboliti, corrosi, con le parti più importanti ormai vizze, incartapecorite, insensibili alla brezza. Quando un refolo più forte le spinge le une contro le altre avverti un ciangolio secco, come di legnetti che si frangono, foglie sfinite, senza linfa quasi prone, arresesi al tempo che è arrivato alla fine; brattee spesse un poco aperte in alto, boccheggianti in un tentativo di lasciare andare qualche seme, in un istinto di propagazione impossibile per via naturale. Le barbe ormai seccate, quasi nere, già morte da tempo si sbriciolano al tocco, lascian spazio all'introdursi di nuova vita che non aspettava che questo momento per infilarsi, scavando gallerie protettive nel ventre dell'agonizzante, diventato ricovero solido, ambìto.
Tutto è pronto per l'assalto saprofitico di una natura ferina, dove ogni vivente sopravvive e si propaga solo a spesa di altri viventi, per essere poi a suo tempo, a sua volta, sopraffatto da nuovi e più feroci predatori. Il campo di mais sta lì, quadrato, denso e fitto come un corpo solido, una barriera invalicabile in cui tu non puoi penetrare, a meno che tu non sia viscido, piccolo, invisibile o strisciante. Un blocco unico apparentemente forte che invece odora di materia in disfacimento, della corruzione che solo il tempo produce, di senso di morte. E' novembre, neanche la pioggia ha voglia di scendere decisa, sincera. L'aria però ti bagna, tanto è umida e si fa acqua per pervadere gli stocchi moribondi e aiutarli a morire. Chissà se ancora avevano desiderio di vivere, di rinnovare l'ansia di crescita, quando nella calda estate ergevano le foglie diritte e orgogliose verso l'alto a carpire l'abbraccio del sole, per crescere ancora, per sentire quel rigonfiarsi sereno dentro di sé, quella promessa di vita, che poi altri avrebbero sfruttato, ma che pareva ragione di esistere, motivo filosofico di essere vivo. Niente sembrava potesse fermare quello slancio potente di ferace affermazione di vita. Adesso eccole lì, le piante, gialle, deboli, alcune già irrimediabilmente spezzate, il pennacchio non più orgoglioso e ritto al cielo, ma spento e fiacco, privo ormai di pollini vivi; le spighe gonfie abbandonate sul fianco, il peso della loro grassezza pronto a spezzarle; il terreno ormai ricoperto di scorie morte in decomposizione. Che terribile metafora della vita.
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