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L’ultimo colpo del prete fascista – di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Creato il 25 gennaio 2012 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

L’ultimo colpo del prete fascista – di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Da giovane fu uno sbandato, uno che spaccava teste, che bruciava presto come una candela romana. Che non aveva pietà per sé stesso né per chi aveva la sfortuna di stargli accanto riconoscendolo come leader. Francesco non si sarebbe calmato mai. Non le botte date e quelle ricevute avrebbero messo a tacere l’animo animalesco che una natura incline al dispetto gl’aveva donato.
Non domabile, Francesco portava avanti i suoi giorni tra risse per motivi invero futili, senza senso, e il gusto di scoprire a fine giornata sul proprio corpo nuovi lividi, molti dei quali destinati a diventare grosse cicatrici. Di lacrime non ne aveva. E non ne avrebbe sciupate, non fosse stato che un bel giorno di sole, di quelli che pare esistano solo nell’immaginazione esagerata di certi poeti preda del romanticismo più becero, Francesco si accorse di esserci cascato a piè pari: e come tutti gl’innamorati che vivono l’innamoramento si diede dello “stupido” per poi tenersi la testa fra le mani, disperato e piangente.
Cercò conforto nel giardino di Octave Mirbeau, ma il suo animo refrattario a qual si voglia lettura gli rifiutò anche la consolazione della finzione, della destrorsa cattiveria che in essa si cela. Innamorarsi fu la sua dannazione. Non aveva mai pensato sul serio che una simile condizione potesse farsi strada nel suo cuore, le donne difatti le aveva sempre trattate alla stregua di bellissime e delicate bambole, ma una volta usate, via e con durezza. Allora perché non gl’era riuscito di fare lo stesso con Lei? Possibile che un singolo fiore fosse riuscito a strappargli dal petto il cuore? Per quanto si interrogasse, Francesco non trovava che una risposta: Lei lo aveva stregato e non sarebbe valso a nulla tentare di prenderla con la forza, il suo desiderio era un altro, era d’esser amato. Però Lei non lo amava, questo lui lo sapeva bene.

 

* * *

Il Duce non avrebbe approvato. Campeggiava il suo ritratto in bianco e nero sulla parete. Severo. Vuoto di umanità Benito Mussolini teneva piantati i suoi occhi come chiodi in quelli di Francesco, ma non sarebbe tornato indietro. Lui perlomeno lo avevano fatto fuori in pubblico insieme alla sua donna Claretta Petacci, in via XXV Maggio di fronte a Villa Belmonte. Nessun processo. Francesco odiava i comunisti, tutti. Non avrebbero dovuto osare. Però era stato fatto fuori insieme alla sua Claretta, nonostante l’avesse tradita più e più volte, umiliandola. Fu allora, mentre accarezzava il calcio della Beretta, che realizzo che neanche il fascismo soffre di perfezione.

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Nessuna luce. Non aveva visto nessun tunnel né si era sentito abbracciato da una luce divina.
Semplicemente: non era stato per tutto il tempo ch’era rimasto privo di sensi.
Un dottorino calvo, quasi tisico, nel suo camice bianco era venuto a informarlo nel pomeriggio che era un miracolo che fosse vivo. Però il proiettile restava al suo posto, dove lui Francesco se l’era sparato, accanto al cuore. Estrarlo avrebbe significato condannarlo a morte certa. Non se parlava neppure: il proiettile sarebbe rimasto nel suo petto per i giorni a venire.

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“Saltare cent’anni in un giorno solo,/ dai carri dei campi/ agli aerei nel cielo./ E non capirci niente e aver voglia di tornare da te./ Ciao amore,/ ciao amore, ciao amore ciao…”: la canzone dalla radio sfumava con lentezza, gracchiando fra le onde FM. Francesco ricordava bene il cancan ch’era seguito alla notizia del suicidio di Luigi Tenco. Ricordava pure le lacrime di Dalida e la verità degli amici di Luigi che non credevano al suicidio. Dopo tanti anni le canzoni di Tenco non erano morte, avevano invece trovato spazio nell’attualità di tutti i giorni e il mito del cantante aveva finito con l’ingoiare la poeticità delle sue canzoni. D’altro canto, neanche da postumi si può avere tutto, così la pensava Francesco oramai avviato a quella che immaginava sarebbe stata una combattiva vecchiaia. Forse ancora una diecina di anni, poi pure lui sarebbe finito sottoterra come tutti. Ma non prima! Fissò il Crocifisso appeso alla parete. Scarno legno d’ulivo: la figura del Cristo sofferente e rassegnato. Quella immagine la conosceva bene. Dopo aver beffato la morte, con un proiettile conficcato nel petto a meno d’un centimetro dal cuore, aveva preso la decisione di prendere i voti. Non per riconoscenza verso Dio, non per improvvisa vocazione: per scappare da Lei. Per dimenticarla. Per celebrare infine il suo funerale. Lei, tanto amata, era morta non ancora settantenne in un incidente d’auto, dopo aver sposato un uomo che per tutta la vita l’aveva picchiata ed avergli dato tre figli, uno più irriconoscente dell’altro. La vita non era stata giusta con la “sua” Beatrice. Le aveva dato bellezza d’animo e una superba eleganza che nemmeno gli anni erano riusciti a guastare del tutto, ma ogni giorno era stato per Lei un calvario fino all’epilogo.

Francesco non aveva fatto carriera nel corpo ecclesiastico, non perché gli fossero venute a mancare le occasioni bensì per una sua scelta personale, molto personale: che ad un certo punto tentò di rivelarsi con delle accuse di pedofilia. Tuttavia mai fu possibile provare che Don Francesco avesse avuto rapporti carnali coi suoi chierichetti. Tutti, per imperscrutabili motivi, finirono col ritrattare le accuse mosse contro Francesco e questi ne uscì pulito, santificato quasi.
In paese Don Francesco era tenuto molto da conto: noto anticomunista, era uno di quelli che il suo gregge lo bacchettava. Quelli che l’avevano accusato di pedofilia furono bollati come ragazzacci dagli stessi genitori, che non gli risparmiarono lavate di testa che meriterebbero d’esser narrate in un capitolo a parte.

Il sermone, dove preparare il sermone per la domenica. Luigi Tenco era sfumato da un pezzo, adesso la radio trasmetteva una canzonaccia comunista, poco ma sicuro, dei Radiohead: “I don’t care if it hurts / I want to have control / I want a perfect body / I want a perfect soul / I want you to notice / When I’m not around / You’re so fuckin’ special / I wish I was special/ But I’m a creep, I’m a weirdo…”* Il sacerdote si raschiò la gola, poi senza farsi pregare sputò nella coppa del vino. Tenco, i Radiohead, tutti comunisti. Era uno schifo che gli faceva male all’anima. Non che ci credesse a una vita dopo quella terrena, ma certe idee d’uguaglianza non riusciva proprio a buttarle giù, così, a cuor leggero. In segreto pregava che lo facessero beato a quel figlio di puttana di Pio XII, così la comunità ebrea avrebbe cagato sangue dalla rabbia.

Si era in Dicembre inoltrato, pochi giorni e il nuovo anno avrebbe fatto irruzione nella vita di molti, molti altri se li sarebbe invece portati via prima: il freddo siberiano tra i vecchi non aveva avuto pietà, persino Francesco era stato costretto a letto per un po’ di tempo con una febbre che non era febbre e che però gl’aveva spaccato le ossa. Il sacerdote temeva che se tutti i vecchi del paese avessero reso l’anima al Creatore, allora i giovani avrebbero potuto propagandare idee socialiste riuscendo a farle attecchire, o perlomeno insinuando il dubbio nei loro genitori che il nazionalismo non fosse poi cosa così tanto buona. I vecchi erano lo zoccolo duro, gli anticomunisti convinti che indicavano la strada giusta a quei figli che avevano messo al mondo negli anni Sessanta e che oggi erano genitori di ragazzacci con orrende magliette rosse con su stampato Ernesto Che Guevara. Dei giovanissimi aveva timore Don Francesco, per questo quando un giovincello finiva chierichetto per volere dei suoi, lui lo toccava: era quello il solo modo per fargli capire che… e poi così si toglieva pure certe voglie che se represse l’avrebbero fatto impazzire.

Quella domenica il clima era particolarmente rigido. La gente entrava in chiesa con una rigidezza innaturale, come se gl’avessero cacciato a forza un palo su per il culo. C’erano pressoché tutti accomodati sulle panche, con il Vangelo in mano, quasi in religioso silenzio. Alcuni si soffiavano sulle mani per riscaldarle nonostante avessero ancora i guanti. Le donne fingevano di farsi il segno della croce; in verità si sfregavano la punta del naso preoccupate che si fosse arrossato troppo per via del freddo. I bambini sgambettavano e qualcuno riceveva uno scappellotto dalla madre dritto sulla testa. Don Francesco osservava la varietà di umanità raccolta davanti ai suoi occhi, con un po’ di disgusto, levando di tanto in tanto gli occhi in su come a cercare una via d’uscita. Dalle trifore una luce malata, paglierina, filtrava a fatica: bastava appena a rischiarare la navata centrale, ch’era illuminata solo da alcune candele poste in punti strategici, vicino alle acquasantiere, ai confessionali e sull’altare. Il sacerdote non amava la luce elettrica nella sua chiesa, perlomeno non coi fedeli presenti e quando lui diceva messa. Un vizio il suo che aveva imposto come regola, uguale a quella che voleva i comunisti lontani dalla croce del Signore. Era stato uno degli ultimi “resistenti” a non voler togliere l’indicazione che i comunisti non erano ben visti in chiesa; ma alla fine le pressioni del Vaticano erano state tali da farlo capitolare. In ogni caso i “rossi”, anche quelli che una fede verso un Aldilà la nutrivano, non si spingevano nella chiesa di Don Francesco; preferivano grattarsi piuttosto che metter piede in un posto dove a dir messa era un fascista dichiarato.
Squadrò gli astanti, incurante del freddo, e piano con voce catarrosa attaccò un canto lamentoso, o almeno è quello che l’orecchio sentiva. Imbarazzati i più chinavano il capo ossequiosi, manco si trovassero a cospetto di Dio. Don Francesco, coi paramenti della festa addosso, davanti all’altare, gli occhi alteri e gli zigomi come scolpiti nel marmo, pareva un anticristo partorito da una Clara Petacci con tanto di benedizione vaticana. Don Francesco attaccò il sermone, vomitando dall’ugola una voce robotica.

“Chiamiamo Natale del Signore il giorno in cui la sapienza di Dio si manifestò in un bambino e il Verbo di Dio, che si esprime senza parole, emise vagiti umani. La divinità nascosta in quel bambino fu tuttavia indicata ai Magi per mezzo di una stella e fu annunziata ai pastori dalla voce degli angeli. Con questa festa che ricorre ogni anno celebriamo dunque il giorno in cui si adempì la profezia: La verità è sorta dalla terra e la giustizia si è affacciata dal cielo. La Verità che è nel seno del Padre è sorta dalla terra perché fosse anche nel seno di una madre. La Verità che regge il mondo intero è sorta dalla terra perché fosse sorretta da mani di donna. La Verità che alimenta incorruttibilmente la beatitudine degli angeli è sorta dalla terra perché venisse allattata da un seno di donna. La Verità che il cielo non è sufficiente a contenere è sorta dalla terra per essere adagiata in una mangiatoia. Con vantaggio di chi un Dio tanto sublime si è fatto tanto umile? Certamente con nessun vantaggio per sé, ma con grande vantaggio per noi, se crediamo. Ridestati, uomo: per te Dio si è fatto uomo. Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà. Per te, ripeto, Dio si è fatto uomo. Saresti morto per sempre se lui non fosse nato nel tempo. Mai saresti stato liberato dalla carne del peccato, se lui non avesse assunto una carne simile a quella del peccato. Ti saresti trovato sempre in uno stato di miseria, se lui non ti avesse usato misericordia. Non saresti ritornato a vivere, se lui non avesse condiviso la tua morte. Saresti venuto meno, se lui non fosse venuto in tuo aiuto. Ti saresti perduto, se lui non fosse arrivato.” **

Finito che ebbe di recitare le fiamme sulle candele ebbero un fremito. Un candeliere si spense, come preso d’assalto da una mano fantasma: le candele, una ad una, morirono. Don Francesco non ci badò, non più di tanto; ma quando anche un secondo e un terzo candeliere morirono sotto i suoi occhi attirando l’attenzione dei fedeli, un brivido freddo gli corse lungo la schiena. Un brivido di leggera paura. Le fiamme erano morte come se fossero state pizzicate fra indice e pollice. Qualcuno levò un grido, poi ammutolì più di là che di qua. Un vecchio gracchiò con voce catarrosa che uno spirito maligno era entrato nella casa del Signore… e che s’era vero, allora Dio doveva esser per forza di cose morto, perché altrimenti non avrebbe mai permesso che un dèmone invadesse la sua casa.
Francesco stava per sbottare qualcosa, quando una fitta lancinante al petto lo costrinse al silenzio. Sgranò gl’occhi per la sorpresa: se era un infarto, e ne era quasi certo, era davvero un brutto modo di portare via le chiappe, come in un mediocre b-movie. Il dolore allentò la presa e subito Francesco berciò ai suoi fedeli di mantenere la calma: “State ai vostri posti… è uno scherzo di quei ragazzacci comunisti…” Ma non ebbe il tempo di finire il rimprovero che un’altra fitta lo attraversò, questa volta costringendolo a piegarsi fino a cadere in ginocchio. La fitta era peggio d’un proiettile. Non ricordava d’aver mai provato un dolore tanto acuto, neanche quando aveva tentato di suicidarsi con un colpo di pistola. Grugnì come un maiale a cui stessero tagliando il collo da orecchio a orecchio con un coltellaccio. Tra i presenti si diffuse un panico cieco, ognuno pensava per sé. Le porte della chiesa non si aprivano, forse chiuse a chiave. O forse solo l’isterismo oramai all’apice faceva sì che le porte restassero serrate. D’un colpo si spalancarono: una gragnola di neve e acqua sferzò le facce terrorizzate e pallide dei fedeli, che subito sciamarono fuori non curandosi affatto del sacerdote riverso a terra.
L’uomo con le unghie grattava il pavimento della sua chiesa. Se solo avesse potuto avrebbe mandato al diavolo tutto e tutti, ma la mandibola gli faceva un male boia e la vista lo tradiva. Si trascinava per terra: ogni centimetro conquistato gli sembrava grande quanto l’Infinito. Per un secondo ebbe l’illusione che ce l’avrebbe fatta. Quando però vomitò un fiotto di sangue dalla bocca, capì che non ci sarebbe stato miracolo o patto col diavolo che l’avrebbe rimesso più in piedi. Alla fine quel dannato proiettile, che non aveva voluto fare il suo dovere cinquanta anni fa, aveva fatto centro. Non aveva paura della morte, no. Non più di chiunque altro. E’ che aveva ancora tante cose da fare e senza di lui i dannati comunisti avrebbero scardinato l’equilibrio sociale. Non era giusto, no che non lo era. Quel proiettile avrebbe dovuto farlo fuori tanto tempo fa quando il suo cuore s’era preso per quella femmina, per Beatrice, e non adesso che la società aveva così tanto bisogno della sua inflessibilità littoria. Realizzò che il Fato per lui si stava esaurendo come in un b-movie: “Cala il sipario sul più bello, proprio adesso che ci avevo fatto l’abitudine a trattare gli altri come attori di secondo piano”. Vomitò sangue. Sentì addosso come uno sguardo insistente. Dietro di lui c’era solo Gesù Cristo crocifisso. Doveva essere una sua impressione, l’ultima che avrebbe avuto prima di tirare le cuoia. E proprio come in un b-movie di pessima qualità vide Beatrice, giovane e bella, che incedeva con leggerezza verso di lui per chinarsi e raccogliergli il capo fra le mani. Visione sì, ma mandatagli da Dio o dal Demonio? Perché gl’aveva preso la testa fra le mani a quel modo? Sentì le tempie scoppiargli. Era Beatrice che gli schiacciava il cranio fra le mani. Provò a sputare una parola, ma la mandibola restò incollata alla mascella.

* * *

Al funerale aveva preso parte tutto il paese. Anche i giovani e i giovanissimi, che era da tanto tanto tempo che non avevano motivo di gioire: quando il feretro fu calato nella fossa, i ragazzacci ridevano, tiravano noccioline sulla bara, i più arditi sputavano sulla cassa di legno proprio sotto gl’occhi dei genitori e del becchino che si limitavano a stringersi nelle spalle fingendo una esasperazione che in realtà non nutrivano. Una volta fuori dai piedi, quel Don non contava più niente. Era stato temibile sin tanto che aveva fatto il buono e il cattivo tempo coi suoi sermoni in chiesa. Adesso ch’era bell’e morto, non gliene fregava a nessuno di portargli il rispetto, perché il rispetto lo si deve ai vivi che comandano e non ai morti che fanno i vermi sotto terra.
Il sole era alto in cielo, non una nuvola, proprio una bella giornata, non troppo rigida per essere ai primi di Gennaio.

* Creep, Radiohead, testo di Thom Yorke, dall’album “Pablo Honey” (1993) –“non importa se fa male / voglio avere il controllo / voglio un corpo perfetto / voglio un’anima perfetta/ voglio che tu ti accorga / quando non sono in giro / tu sei così fottutamente speciale / io avrei voluto essere speciale/ ma sono merda, un tipaccio sul serio…”. Thom Yorke ha spiegato a suo tempo che il brano parla di un ubriaco che cerca di attirare l’attenzione di una donna seguendola ovunque lei vada, ma alla fine si rende conto di essere lui la donna che insegue. Sempre Thom Yorke ha dichiarato al Boston Globe nell’ottobre del 1993: “Ho notevoli problemi nell’essere un uomo degli anni novanta… Ogni uomo con sensibilità o coscienza verso il sesso opposto avrebbe problemi simili. E’ impresa ardua affermare la propria mascolinità senza sembrare il membro di un gruppo hard-rock… Questo si riflette sulla musica che scriviamo, che, pur non essendo effeminata, non risulta neanche brutalmente tracotante. E’ una delle cose che provo continuamente a fare: affermare un personaggio sensuale e provare disperatamente a negarlo.”
** Sant’Agostino, Sermone 185, 1

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