Una campo di detenzione che dovrebbe essere chiuso: nel gennaio del 2009 il Presidente degli Stati Uniti, nonché Premio Nobel per la Pace, aveva firmato il decreto per lo smantellamento del carcere più famoso del mondo. Ma il campo XRay, più noto come Guantanamo, è ancora lì. E sarà difficile estirparlo.
Non è dato sapere con precisione quanti siano i detenuti: secondo l’ultima stima del Washington Post sono 172. Nel suo mandato Obama si è impegnato a trasferirne molti offrendoli ad altri paesi in cambio di benefit, come hanno testimoniato molti dispacci di WikiLeaks. Il numero è molto diminuito dai 500 del 2006, ma la prigione ancora non è stata svuotata.
Particolare la situazione degli incarcerati: sono tutti presunti terroristi o similia, ma solo contro 10 sono state formulate delle accuse ed è arrivato il rinvio a giudizio. Gli altri sono considerati con la semplice dicitura “detaines”, detenuti, negando l’etichetta di prigionieri di guerra, poiché ritenuti combattenti irregolari, che permetterebbe loro una condizione migliore.
Il centro rientra nella base navale di Guantanamo, in un’exclave statunitense nell’isola di Cuba.
I prigionieri sono tenuti in celle più simili a gabbie per animali che a gattabuie: due metri per due, tetto in compensato, pavimento di cemento e pareti avvolte da due file di fil di ferro. Le guardie in questo modo hanno una visione completa, poco importa che i detenuti siano alla mercé delle intemperie ambientali. Il clima non è di certo ospitale: già a metà mattina si raggiungono i 40 gradi e la zona è fortemente soggetta agli uragani o alle code di questi.
Nel campo ci sono 160 celle, una baracca per la polizia militare, quattro torri di controllo, una piccola infermeria, 30 WC portatili.
La sera vengono accesi 16 potentissimi riflettori: il sole non tramonta mai a Guantanamo.
I giornalisti non posso avvicinarsi a più di 200 metri e non possono usare obiettivi che superano i 200 millimetri, per questo spesso è difficile avere notizie certe sulla prigione.
I detenuti arrivano vestiti con la tristemente famosa tuta arancione, occhi bendati, tappi nelle orecchie, una maschera sul naso e sulla bocca, un pesante cappotto blu e guanti, ammanettati a mani, piedi e all’altezza della cintura. Dopo lo sbarco, scatta la routine dei controlli: check up medico, una foto, impronte digitali e la consegna degli oggetti personali.
In realtà non un granché: un paio di ciabatte cinesi, due secchi, tre asciugamani, un dentifricio, una spazzola senza manico, una saponetta e uno shampoo. Che spesso risulta inutile, in quanto vengono rapati a scadenze regolari.
Quasi tutti sono di religione islamica e per questo, ed è una delle poche aperture, su una delle torri è indicata la direzione della Mecca. Ma niente Corano, perché non si è mai stabilito quale delle cinque versioni fosse la più adatta.
Sono serviti tre pasti al giorno, secondo le abitudini musulmane. I prigionieri passano quasi tutta la giornata sdraiati, devono chiedere il permesso per andare alle latrine o alle docce, verso cui sono accompagnati da due agenti.
I soldati hanno l’ordine di evitare qualsiasi contatto visivo diretto e di parlare con inequivocabile tono di comando. Non c’è spazio per la pietà o le chiacchere a Guantanamo.
Quando arrivano, ai detenuti è permesso spedire una cartolina ai familiari indicando la loro ubicazione.
La parte più terrificante e discussa della base XRay riguarda gli interrogatori e i metodi coercitivi applicati. Torture che si sviluppano in dieci livelli, dagli schiaffi al waterboarding, passando per la privazione del sonno, l’isolamento in un container infestato di insetti e le umiliazioni sessuali.
La tecnica del waterboarding, l’annegamento simulato, il peggiore dei supplizi: al malcapitato vengono coperti con un drappo naso e bocca e poi viene continuamente bagnato d’acqua. Questo scatena la sensazione di affogamento e, quindi, il panico.
Oltre alle difficoltà pratiche e burocratiche nello sbolognare i detenuti ad altri paesi, c’è un altro elemento non marginale che frena la chiusura di Guantanamo: funziona. Le sevizie hanno portato alla confessione di molti irriducibili e hanno permesso l’identificazione del corriere che poi ha tradito Bin Laden indicando la sua dimora.
Tra quelli che hanno ceduto al waterboarding c’è Khalid Sheikh Mohammed, la mente dell’11 settembre, Abu Zubayda, stretto collaboratore dello Sceicco del Terrore, Ramzi bin al-Shib, il collegamento tra gli esecutori dell’11 settembre e i capi di Al Qaeda, Mohammed Al-Qahtani, il dirottatore mancato, e Rahim al-Nashiri, attentatore al cacciatorpediniere USS Cole. Tutti hanno confessato o hanno fornito informazioni utili dopo svariate sedute di affogamento simulato.
Ma la posta in palio è alta: vale la pena tenere in piedi una struttura che non ha nulla da invidiare ai lager nazisti o sovietici, l’emblema ultimo dell’imperialismo e autoritarismo arrogante statunitense, luogo di violazioni inimmaginabili dei diritti fondamentali dell’uomo per strappare delle confessioni? Ognuno scelga la propria risposta, io credo di averla già fatta trasparire.