Rientrato a Venezia nel 1551, dopo un periodo di viaggi e due prolungati soggiorni alla corte di Carlo V ad Augusta, Tiziano Vecellio passò gli ultimi venticinque anni in laguna, spostandosi solo per saltuari ritorni nella natia Pieve di Cadore, dove aveva comunque da sovrintendere alla gestione del suo cospicuo patrimonio. Ma la vita artistica veneziana ormai era dominata da Tintoretto e Paolo Veronese. L’ormai ultrasessantenne maestro dovette fare quasi eslusivamente affidamento sul canale privilegiato instaurato con Carlo V e, dopo la sua morte avvenuta nel 1558, col figlio Filippo II. L’agiatezza raggiunta gli consentì comunque un’ampia libertà di espressione e di ricerca. Tiziano colse così l’occasione per accettare la sfida lanciata dall’affermazione della nuova generazione ed aprire nuove strade alla pittura. Un atteggiamento che, in diversa misura, caratterizzò l’approccio a ogni tematica affrontata nel suo ultimo periodo. Nei soggetti mitologici, all’esplicitazione erotica fa da contraltare una velatura d’inquietudine, già presente nella Danae per le nozze di Filippo II e teorizzata subito dopo con le cosiddette “poesie” (dipinti di ambiente mitologico con sottintesa una riflessione disincantata e malinconica sulla vita), inaugurate nel 1553 con Venere e Adone, sempre per la stessa committenza. Proprio con questi due soggetti, Tiziano, mostrando una volta di più la convivenza più unica che rara del genio artistico e imprenditoriale, ebbe un’intuizione che fa pensare alla riproducibilità dell’opera d’arte benjaminiana e a Andy Warhol. Sfruttando lo straordinario successo suscitato dagli originali, il cadorino riprodusse più volte i due soggetti, con delle variazioni per garantirne l’unicità ad ogni compratore.
Rimanendo all’iconografia mitologica, nella Punizione di Marsia, uno dei suoi ultimi capolavori eseguito negli anni ’70, quella che l’onnipresente Vasari, dopo aver visitato l’atelier del maestro, aveva definito in modo velatamente dispregiativo pittura di macchia, le cui origini la critica fa risalire alla Crocifissione di Ancona del 1558, venne portata alle estreme conseguenze, con esiti che fanno pensare al proto-espressionismo di Ensor. Il termine usato da Vasari, macchia, tanto caro alla pittura del tardo ottocento, deriva dal completo abbandono del disegno e dalla stesura del colore a colpi di pennello viscerali, anche con le dita, creando un effetto di disfacimento della forma e sviluppando il colore in senso materico. Un processo che non risparmia i soggetti religiosi, anche se con esiti meno radicali, come testimoniato dalla Deposizione del 1559, dall’Annunciazione dei primi anni ’60, dall’Incoronazione di spine degli anni ’70 e dall’estremo capolavoro della Pietà, pensato per il proprio sepolcro in Santa Maria Gloriosa dei Frari e come ex-voto di protezione contro l’infuriare della peste. Proprio l’epidemia sarà la causa della morte del vecchio maestro nel 1576, poco tempo dopo aver causato la morte del figlio Orazio, lasciando incompiuto il dipinto che verrà ultimato dall’ex allievo Palma il Giovane.
Ma la rivoluzione dell’ultimo Tiziano non si fermò allo sviluppo del colore e della forma in senso espressionistico, come testimonia il complesso e inedito simbolismo dell’Allegoria della prudenza, dipinta nella seconda metà degli anni ’60. Un artista, dunque, che di fronte all’assalto delle nuove generazioni, allo sconforto nel non aver trovato seguaci in grado di mettersi sulla sua strada, al disincanto amaro nei confronti della vita e dei sereni ideali del Rinascimento, non ripiega sulla maniera, non imita i nuovi, ma assorbe tutti gli stimoli e si reinventa uno stile che disorienta i contemporanei, in primis Vasari ma anche il sodale Pietro Aretino, ma che viene recepito dai grandi geni dei secoli a venire, da Velasquez a Rubens, da Rembrandt a Goya, da Gericault a Delacroix, fino agli Impressionisti, alla Scapigliatura italiana e agli Espressionisti.