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“Da un po’ Philip Roth si muove lungo la linea dell’ultima frontiera, al confine estremo di ogni avventura umana e si interroga sul comportamento giusto da tenere, la misura da rispettare, il significato vero da comprendere, la conclusione da trarre. Da qualche anno Philip Roth ha piazzato la sua macchina da scrivere alla confluenza tra il fiume della vita e i grandi laghi della morte. Non è più soltanto uno scrittore, è il patriarca biblico di se stesso, l’ottavo dei Sette Savi dell’antica Grecia, il profeta che cesella riga per riga la sua profezia per renderla incancellabile, invulnerabile al passare del tempo”.
Antonio D’Orrico
Il trentesimo romanzo, anche se in questo caso è meglio definirlo novella, di Philip Roth “L’Umiliazione” è ancora una volta come i suoi precedenti ultimi romanzi, intriso di pessimismo e imminente senso della fine; un racconto impietoso fino alla brutalità della fine di un uomo, il suo arrivo al capolinea. Una narrazione in tre movimenti come una pièce teatrale in cui Simon Axler sessantacinquenne attore di teatro, “principe della scena con uso di mondo shakespeariano e cecoviano, interprete impareggiabile del repertorio più nobile”, precipita in una depressione senza fondo. Fallimento, tormento, frustrazione sono i mali che attanagliano Axler, intanto lasciato anche dalla moglie, che per sfuggire all’attrazione fatale del suo fucile a pompa Remington 870 conservato in cantina, decide di ricoverarsi un una clinica psichiatrica: “uno di quei luoghi dove si passa il tempo e il tempo non passa, sempre fermo a quel momento, il crack-up, l’incrinatura che ti attraversa silenziosa”. Axler ci rimane per circa un mese in questo ospedale di lusso e ha modo di fare conoscenza con una donna che ha subito il trauma peggiore che possa capitare a una madre. I due si fanno compagnia a vicenda sino a familiarizzare sulle cose più intime e intanto Axler recupera un barlume di quell’arte dell’ascolto che era il suo segreto. Una volta a casa, il vecchio attore viene raggiunto da Pegeen Mike Stapleford, figlia di vecchi amici che Axler ha visto la prima volta appena nata, e lesbica in fuga da una relazione di comodo. Bella, giovane, affascinante con esperienze sessualmente sconcertanti, Pegeen riattiva la passione amorosa ormai spenta in Axler che ne rimane deliziato al punto di farle da partner in scorribande di erotismo estremo. Insomma Axler da vecchio mattatore mette in scena nel suo privato la parte più antica nella relazione fra i sessi: quella del vecchio che sgambetta dietro a una giovanotta piena di se e senza scrupoli. Pegeen conduce il gioco sino all’estremo, dominando il vecchio attore che si lascia volutamente dominare dal momento che non potrebbe essere altrimenti vista la sua condizione fisica e procederà nella pessima recitazione fino all’epilogo beffardo e feroce ma contento di aver tentato la trasformazione di un maschiaccio in una donna raffinatissima. Un’ultimo colpo di scena, terribile, micidiale chiuderà questo volume che la critica statunitense ha lodato in maniera unanime, ritenendolo all’altezza dei migliori romanzi di Roth.
Roth dà conto della caduta verticale del suo personaggio con straordinaria lucidità, osservandolo a distanza e senza alcuna caduta nel sentimentalismo. “Scrive una novella che ha la forza allegorica di un morality play contemporaneo e consegna al lettore un personaggio tra i maggiori di sempre. Simon Axler è una memorabile figura della fragilità e dell’ambivalenza del talento, dell’uomo che gioca tutto sul tavolo della rappresentazione, e quando perde il suo dono incontra la propria nemesi nelle vesti di mediocre attrice e donna mascherata da uomo”. C’è nel testo un concetto che varie volte viene ripetuto e che poi è il titolo stesso del libro: l’umiliazione. E’ l’umiliazione quella che vive il protagonista per l’intera storia di uomo maturo, nel lavoro come nella vita affettiva e ogni volta che Axler si sente umiliato si capisce che è un ulteriore passo verso la fine. C’è in lui il fatalismo e la rassegnazione di chi si pone in condizione neutrale nei confronti della propria esistenza, osservandola trascorrere e accettandola come se fosse immodificabile.
“Un romanzo scritto da un Roth nordico, severo, senza concessioni di sorta, indulgenze o auto indulgenze, giunto al Ground Zero della narratività”.
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