La basilica cattolica di Esztergom
Se prendi il treno alla stazione Nyugati di Budapest, in meno di un’ora sei a Nagymaros. Da qui puoi cominciare un viaggio in una delle regioni più interessanti dell’Ungheria: l’ansa del Danubio, dove questo fiume paterno, antico come un patriarca biblico, devia il suo corso verso sud e scende a oriente di Pecs, dividendo in due l’Ungheria. Due parti diverse, accomunate da un’unica lingua, da una comune storia. L’area danubiana, più calda, quasi mediterranea, e quella che a oriente sale fino all’Ucraina, correndo al nord sul confine slovacco.
L’Ungheria è un Paese di 93 mila chilometri quadrati e quasi dieci milioni di abitanti distribuiti su estesi campi verdi, boschi, corsi d’acqua e città con i tetti rossi spioventi, caratteristici villaggi dove dominano la quiete e i colori tenui del paesaggio. Una serenità che non è torpore, sonno della ragione. La memoria è fortissima in tutti gli ungheresi. Specialmente in quelli che si trovano a vivere nella grande Ungheria fatta da milioni di famiglie magiare che lavorano ai confini della loro madrepatria, in Romania, in Slovacchia, in Ucraina, in Austria, in alcuni Paesi della ex Yugoslavia o in altre regioni dove le alterne vicende le hanno spinte a emigrare. C’è un sentire comune, tra questa gente fuori dalla sua terra e gli stessi governanti ungheresi. Avvertono di appartenere a un’unica grande nazione anche se non ne fanno parte. Questo modo di sentire, è una condizione dello spirito, che non ha a che fare con i preconcetti, ma con la memoria, con il ricordo sempre vivo della propria identità. Gli ungheresi sono tra di loro diversi ma uguali. Cosa che non capita agli italiani.
ll Danubio su cui domina la basilica di Esztergom, ai confini con la Slovacchia
La religione è, forse, il terreno più appropriato in cui si manifesta l’unità e la diversità di questo popolo. Se si fa eccezione di Budapest, la cui storia è molto legata all’Austria, gli ungheresi vivono la loro identità nella loro esperienza millenaria di popolo. Per secoli, e forse ancora oggi, la loro capitale religiosa è stata Esztergom, che fu città politica dell’Ungheria sotto gli Arpad, tra il IX e il XIV secolo dopo Cristo. In questa ridente cittadina danubiana, ai confini con la Slovacchia, trovò i natali il primo re dell’Ungheria: Stefano I che qui visse e morì dopo essere stato incoronato re nel l’anno 1000. Qui si erge l’imponente basilica cattolica neoclassica che conserva antichi tesori dei regni passati. Ci arrivi attraverso due versanti opposti e in netto contrasto tra di loro. Dal lato del Danubio, a mano a mano che ti inerpichi a piedi su un viottolo scosceso scorgi sempre più leggibili sull’architrave posteriore della basilica i caratteri latini del monito: “Quae sursum sunt quaerite” (“Cercate le cose che sono in alto”). Dal versante opposto sali agevolmente attraverso un’ampia strada selciata, avvertito, ancora una volta, dalla sapiente mano dell’architetto che ai primi dell’Ottocento costruì la cattedrale incorporando una vecchia cappella del XVI secolo, opera di un maestro fiorentino: “Caput mater et magistra ecclesiarum Hunghaeriae”. Ma questa vocazione non toglie nulla alle innumerevoli chiese luterane e calviniste sparse su tutto il territorio ungherese. Non c’è traccia di conflitto tra religioni, perché tutte hanno una reale parità e dignità. Allo stesso modo nulla muta la profondità del radicamento storico presente nelle popolazioni. Te ne accorgi quando sbarchi in battello da Nagymaros a Visegrad e vedi da vicino il bianco campanile della chiesa del paese, lindo e carico di decenni.
Visegrad. La storia raccontata ai bambini
Se fai pochi passi, l’architettura di alcuni edifici ti racconta antiche storie medievali e, con sorpresa, persino le favole animate dei luoghi e dei personaggi immaginate per i bambini attraverso imponenti sculture in legno variopinto.
Tutti i paesi si assomigliano. Hanno uno zoccolo duro, rappresentato dalla lingua, con le sue varianti, la sua storia, e una zona sfumata, osmotica, lungo la quale nei secoli sono avvenuti scambi di varia natura, non solo linguistici, ma anche antropologici e culturali, religiosi ed economici. Ma qui la memoria e la diversità sono veramente una ricchezza.
Perciò mi mette molta tristezza il dover constatare quanto da noi, in Italia, sia forte il senso dell’autodistruzione e dell’aggressione verso gli altri e quanto siano banali i nostri stili di vita, i nostri atteggiamenti, i nostri uomini. Tra tutti, i militi del Carroccio, quelli del giuramento di Pontida, i vari Borghezio e le teste cornute dei padani. Forse gli italiani farebbero bene a prendere qualche lezione dall’Europa e a imparare, prima di tutto, ad essere un popolo, prima di smarrire completamente il senso della loro appartenenza.
Giuseppe Casarrubea