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L’unione monetaria senza unione politica sta dilaniando l’Europa

Da Pukos
L’unione monetaria senza unione politica sta dilaniando l’Europa

Non ho mai pensato che i concetti espressi da coloro che vantano importanti titoli accademici abbiano di per sé una valenza superiore, ho sentito troppe volte profferire castronerie inenarrabili da professori di prestigiose Università.

Voglio sottolineare solo che ciò che sostengo, ormai da diversi anni, riguardo agli sviluppi che potrà avere l’eurozona, collima con quanto asserisce Timothy Garton Ash, professore di Studi europei presso l’Università di Oxford, in questo articolo pubblicato lo scorso 9 marzo sul Los Angeles Times.

Ve ne consiglio quindi caldamente la lettura.

 

“Se fallisce l’euro, fallisce l’Europa.” Così parlò Angela Merkel. Purtroppo, l’euro sta lentamente fallendo. Anche se la Grecia fa “Grexit”, sembra improbabile che l’eurozona si sciolga subito. È più probabile che continui ad arrancare come un trattore Kazako mal progettato, producendo una crescita più lenta, meno posti di lavoro e una maggiore sofferenza umana di quella che gli stessi paesi avrebbero avuto senza unione monetaria. E la miseria sarà distribuita in modo iniquo tra paesi debitori e creditori, con il sud Europa che arranca e il nord che ancora prospera.

Queste diverse esperienze nazionali si rifletteranno sulle elezioni nazionali, creando tensioni maggiori di quelle che abbiamo già visto tra Germania e Grecia. Alla fine, qualcosa dovrà cambiare.

Recentemente ho partecipato a un evento a Francoforte, in Germania, a cui sono intervenuti rappresentanti dei principali investitori europei. È stato fatto un sondaggio istantaneo: come sarà l’eurozona tra cinque anni? Quasi la metà dei presenti ha optato, come me, per “come il Giappone negli anni 90″; il 20% ha votato per “quale Eurozona?”; il 18% ha scelto “come il Regno Unito dopo [il primo ministro Margaret] Thatcher,” con ciò volendo presumibilmente dire che l’austerità e le riforme strutturali produrranno crescita, ma anche emigrazioni e disuguaglianza. Il punto fermo è che anche nell’ipotesi “migliore”, la disuguaglianza verrebbe distribuita in modo non uniforme tra i diversi paesi. La Germania e poche altre nazioni europee del Nord continuerebbero a ottenere la maggior parte dei vantaggi; gli altri, la maggior parte delle sofferenze.

I politici e gli economisti tedeschi più ascoltati contestano ferocemente questa analisi. L’austerità e le riforme strutturali sono l’unica vera via per la salvezza, ribadiscono. Come ha detto la Cancelliera tedesca Merkel nel 2013: “quello che abbiamo fatto noi, possono farlo tutti gli altri.”

Questa affermazione presenta almeno tre problemi. In primo luogo, anche la medicina giusta può essere disastrosa se somministrata in dose troppo forte ad un paziente indebolito. In secondo luogo, i greci, gli italiani e i francesi non sono i tedeschi. Le loro economie hanno bisogno di riforme strutturali, ma le loro società e le loro imprese semplicemente non rispondono allo stesso modo di quelle tedesche. Terzo, anche se l’intera Eurozona diventasse un gigantesco campione del mondo in esportazioni in stile tedesco, chi farà la parte del consumatore? Parte della domanda deve arrivare dai paesi più ricchi, come la Germania. Se tutti gli altri si comportano di più da Germania, allora la Germania deve comportarsi un po’ meno da Germania. Ma la Germania non è disposta a farlo.

A lungo termine, la Germania ne soffrirà le conseguenze, ma non nel breve. La Germania ha dovuto salvare paesi come la Grecia, ma gran parte di quei soldi sono tornati dritti ai creditori imprudenti, comprese le banche tedesche. Nel frattempo, il settore export tedesco ha beneficiato enormemente a causa dell’eurozona.

A Francoforte, la miseria di Atene sembrava molto lontana. Un banchiere tedesco ha detto, “il problema con la Grecia è che non ci hanno mai provato”. Questo viene detto di un paese dove persone che in precedenza appartenevano al ceto medio ora vanno alla mensa dei poveri, la metà dei giovani è disoccupata e, secondo una stima, dal 2008 “la spesa dei greci su beni e servizi è di fatto scesa di almeno il 40%.”

Qualcosa si potrebbe fare, se la politica nazionale lo permettesse. Tutti ammettono in privato che la Grecia non può ripagare la sua montagna di debiti, quindi potremmo lasciare che Berlino scambi un condono esplicito dei debito in cambio di significative riforme da parte del nuovo governo greco. O concordare trasferimenti fiscali dagli Stati più ricchi a quelli più poveri, come in una normale unione federale come gli Stati Uniti, dove nessuno si aspetta che l’Alabama possa tenere i ritmi della Silicon Valley in un futuro prossimo. Ma creando un’unione monetaria senza un’unione fiscale o politica, gli europei hanno messo il carro davanti ai buoi. La democrazia nazionale si trova quindi in uno stato di crescente tensione con l’integrazione europea.

Sia chiaro: se dovessi scegliere tra la democrazia e una paternalistica, oligarchica, euro-leninista, versione dell’integrazione europea, sceglierei la democrazia in un istante. Il guaio è che i problemi dell’eurozona richiedono una solidarietà democratica transnazionale europea di concittadini che non esiste e non è logico prevedere nel futuro prossimo.

Quindi l’unione monetaria che avrebbe dovuto unificare l’Europa la sta facendo a pezzi. Ma la tortura è lenta. Nei paesi che soffrono di più a causa di questa “macchina infernale,” come ha descritto l’eurozona un esperto funzionario tedesco, c’è ancora una appassionata determinazione  di rimanere nella UE. Perfino la Grecia ha mostrato una notevole disponibilità al compromesso.

Sul fronte interno, questi paesi hanno ancora una rete di sicurezza, anche se fornita da uno stato sociale molto ridotto. I genitori dei “baby boomer” offrono ancora un posto dove vivere ai propri figli disoccupati e hanno ancora qualche risparmio da parte per aiutarli — la “banca di mamma e papà”. La mobilità del lavoro garantita dall’UE fornisce anche una valvola di sfogo, ad esempio i giovani spagnoli con due lauree espatriano per lavorare come camerieri a Londra o a Berlino. D’altra parte, tale migrazione a sua volta alimenta i partiti politici anti-UE che traggono il loro Euro-scetticismo dalla genuine paure popolari riguardanti l’immigrazione. E gradualmente queste riserve culturali e materiali si esauriranno.

Cosa fare allora? Al mio cuore non piace quello che la mia testa mi sta dicendo. Ma c’è ancora tempo per invertire il trend. Potranno gli europei dell’  ’89 — la generazione nata intorno e dopo il 1989 — generare la visione e la volontà politica che la nostra politica attuale non riesce a produrre?

Timothy Garton Ash – Los Angeles Times


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