Parecchio tempo fa, quando ero studente, avevo partecipato a qualche assemblea della “Pantera“, un movimento studentesco che si opponeva alla riforma dell’università proposta dell’allora ministroRuberti. Quel progetto di riforma prevedeva una trasformazione in senso “privatistico” delle Università italiane (neanche lontanamente comparabile alla riforma Gelmini, Ruberti l’università la conosceva bene). La conoscenza della riforma da parte degli studenti era piuttosto confusa. Quando la discussione, tra i fisici, intraprese lo scivoloso versante su quali siano le ricerche pure e quelle applicate a fini militari lasciai stare e mi concentrai sulla tesi di laurea. L’altro giorno all’assemblea organizzata dalla Rete29 aprile, a cui hanno aderito quasi 15,000 ricercatori universitari (ovvero il 50% del totale), all’università la Sapienza di Roma, la discussione era piuttosto diversa e molto più interessante. C’era gente informata e preoccupata che, senza fare rivendicazioni legate ad interessi di “categoria“, sta portando all’attenzione generale i diversi problemi dell’università oltre che le specifiche situazioni che riguardano loro stessi e le loro prospettive di carriera. La loro posizione non è isolata ed anzi mi sembra che stia rompendo il muro dell’indifferenza all’interno dell’accademia.
Per capire in quale contesto questo accade, vediamo cosa hanno detto, pochi giorni fa, tra gli altri, il Senato Accademico dell’Università la Sapienza di Roma:
“Abbiamo fatto tutto il possibile: abbiamo ridotto i Dipartimenti del 40%, le Facoltà del 60%, riordinato la governance, decentrando tutti i poteri gestionali di ricerca e didattica ai Dipartimenti con organi centrali e Facoltà che hanno funzione di valutazione premiale delle attività. La responsabilità è ora del Governo e del Parlamento che debbono dare risposte concrete sui finanziamenti ormai drammaticamente insufficienti (l’università italiana è ultima in Europa) e sullo stato giuridico che i ricercatori attendono da 30 anni. La Sapienza ha operato per razionalizzare, risparmia e riprogettare in funzione della qualità. Se dalla politica non ci saranno risposte, soprattutto finanziare, avremo una didattica da terzo mondo e una ricerca in dissoluzione. In tali condizioni non saremo in grado di iniziare l’anno accademico 2010-2011”.
e di Palermo:
“Il Senato Accademico dell’Università di Palermo, prendendo atto del persistente stato di agitazione di numerosi professori e ricercatori dell’Ateneo, formalmente esplicitato attraverso la dichiarazione di indisponibilità ad accettare attività formative aggiuntive rispetto al proprio stato giuridico, constata, alla vigilia dell’apertura dell’A.A. 2010/11, la mancanza di copertura di significativa parte dell’offerta formativa, già approvata dagli organismi accademici a ciò deputati. Lo stato di agitazione della docenza e dei ricercatori universitari é conseguenza del dissenso rispetto alla ratio del DdL 1905 (già approvato dal Senato della Repubblica il 29 Luglio 2010) e più in generale rispetto alle politiche economico-finanziarie di dis-investimento e di decurtazione delle risorse umane dell’Università, quali vengono perseguite da anni e il cui progressivo, programmato inasprimento insidia l’esistenza stessa del‘istituzione“.
Dunque a quanto pare i ricercatori non sono isolati all’interno del mondo universitario e molti (se non tutti) si rendono conto benissimo che la ricerca è in via di dissoluzione e la didattica in alcuni casi è già da terzo mondo e soprattutto che la Riforma Gelmini può solo aggravare le cose. Il problema riguarda come si reagisce ad una tale constatazione. Con la ricerca del proprio interesse, con l’indifferenza o con una opposizione dura e consapevole. C’è infatti una parte del mondo accademico che si oppone. Basta leggere il documento che un consistente gruppo di docenti universitari ha redatto poco tempo fa dal titolo In difesa dell’Università . Questo contiene una lucida analisi dell’università alla luce della riforma Gelmini e degli accadimenti degli ultimi anni ed inizia con questa giusta considerazione:
“Il corpo accademico continua ad essere smarrito e silenzioso. È come un pugile frastornato: non reagisce ai colpi che vengono inferti all’Università – e dunque innanzi tutto a chi in essa vive e la fa vivere – da una campagna carica di disprezzo e di irrisione e da una serie di atti governativi devastanti (ampiamente condivisi, nella sostanza ispiratrice, anche dall’opposizione). Continua a subirli in silenzio, rannicchiato su se stesso. Non ha mai trovato le forme collettive di una reazione.” Per concludere “Alla luce a) di queste gravissime preoccupazioni che coinvolgono non solo i tagli previsti ma anche le indicazioni quanto mai caotiche relative al nuovo assetto dei Dipartimenti e delle Facoltà, b) delle facilmente prevedibili difficoltà di carriera in cui verranno a trovarsi gli attuali ricercatori, e c) del prevedibile perpetuarsi sine die del precariato per chi si avvia alla carriera accademica, si propone ai Colleghi di riflettere su iniziative di protesta quali:-Sciopero di tutto il personale docente dell’Università- Sospensione delle sessioni di esami ivi comprese quelle di laurea- Rinvio dell’inizio delle lezioni“.
Gli attuali ricercatori hanno spesso superato un sistema selettivo più impegnativo di quello delle precedenti generazioni. Senza considerare coloro che sono entrati nell’università attraverso ope-legis o concorsi riservati, che dunque hanno fatto una fatica minima, i ricercatori attuali hanno il dottorato, hanno avuto esperienze all’estero, hanno fatto concorsi non facilissimi di ingresso (a differenza del sedicente quasi-quasi nobel ministro Brunetta) . Basti pensare che oggi per un posto di ricercatore ci sono decine e decine (se non centinaia) di candidati. Non sono più “giovani” ma persone di mezza età: se nel 1980 l’età media dei ricercatori era di 31 anni, quella degli associati di 40 anni e quella degli ordinari di 46 anni, nel 2006 questi valori sono passati rispettivamente a 44 anni, 53 anni e 61 anni. L’età media di ciascuna fascia è cresciuta di sei mesi all’anno, ovvero, in media, tra il 1980 ed il 2005, di quasi tredici anni. Sono dunque delle persone adulte e consapevoli che, per storia personale, possono cogliere meglio le problematiche dell’attuale sistema universitario di reclutamento dei docenti più anziani che hanno avuto una carriera completamente diversa ed una vita estremamente più semplice.
Se i Rettori sono preoccupati soprattutto di non avere i soldi per pagare gli stipendi, i ricercatori hanno alzato il tiro. Non stanno chiedendo una ope-legis, come fatto dai loro colleghi di trent’anni fa. Nel loro documento finale dichiarano “che si avvii una discussione pubblica sulla funzione e il ruolo dell’università e della ricerca nel nostro Paese insieme alla scuola e gli enti pubblici di ricerca, a partire dalle tante proposte che questi soggetti possono condividere: dall’autonomia di scelta degli studenti e dall’autonomia e indipendenza della ricerca“. Bisogna partire da qui e c’è bisogno di parlare con tutti coloro che, rendendosi conto della gravità della situazione, sono pronti ad opporsi seriamente oltre che firmare appelli.(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)