Magazine Psicologia

L’uomo che non voleva il naso

Da Renzo Zambello

Segue prima parte:   http://www.psicoterapiadinamica.it/2012/06/luomo-che-non-voleva-il-naso/

di: Renzo Zambello

L’uomo che non voleva il naso

Decisi di prendermi in carico Dario.

Gli proposi l’utilizzo del  lettino che lui accetto ma, forse  non avrebbe rifiutato nulla, gli sarebbe andato bene  qualsiasi cosa.

Ero sinceramente preoccupato. A quell’età  è  possibile scivolare verso derive fallimentari e  il suo sintomo, questa strana forma di dismorfismo corporeo era veramente un brutto sintomo.

Pensai di utilizzare il lettino come il luogo in cui lui si poteva “concedere di delirare” senza sentirsi in pericolo. Io sai stato dietro di lui,  poi, finito,  mi sarei ancorato alle sue parti adulte riportandolo  ad una dimensione razionale.

Funzionò, o meglio, non sempre. Appena si sdraiò, lui  sprofondò nel suo lago buio.

Cominciò a produrre il suo delirio: il naso che lo disturbava che non  voleva.

Spesso sento parlare della sofferenza mentale quasi in termini romantici. Non è così,  questa è schiavitù, mancanza di speranza, buio. Ripetitività mortifera, come  condannati danteschi. Sempre la stessa dolorosissima cosa.

Diceva Jung che noi stiamo bene quando siamo lontani dai nostri archetipi. Se sprofondiamo dentro c’è solo buio, come in fondo al suo lago nero.

Ma qual’era l’archetipo che aveva risucchiato Dario? Quali erano i suoi fantasmi? Che cos’era quel naso che non voleva più e perché? Cos’ era successo?

Dario non me lo raccontava, non lo sapeva, o forse, non ricordava.

Non dovevo far niente, dovevo solo aspettare. Lavorare con lui per rafforzare il nostro rapporto. Assicurarlo che io c’ero, non lo avrei lasciato mai e, aspettare con lui.

Per mesi sguazzò agitato,in preda all’ansia nel suo  buio. Spesso ebbi l’impressione che le mie parole non avessero per lui alcun significato. Era solo una voce, lontana, sulla terra ferma. Ma, forse, l’ultima speranza  che era possibile non sprofondare.

Di solito, dieci minuti prima della fine della seduta, lo chiamavo per nome e gli chiedevo informazioni più dettagliate di quanto avesse fatto su un episodio della sua vita che  aveva appena accennato o,  riferimenti storici  un po’ più in ordine da un punto di vista cronologico. Era il mio tentativo di farlo uscire dal delirio. Spesso funzionava ma altre volte taceva e io stentavo a trattenete le preoccupazione “del genitore” che teme per il figlio che non risponde. Fermavo con forza l’impulso di scuoterlo e, mal celando la mia preoccupazione gli dicevo:” Bene Dario, per oggi abbiamo finito, ci vediamo”.

Dovevo resistere, non muovermi dalla mia posizione. Non dovevo telefonargli, toccarlo, o proporgli farmaci, in altre parole: non andare nel suo gorgo.

Non era facile anche perché la sua sofferenza lo straziava.

Quando raccontava, raccontò di essere stato una bambino e poi un ragazzo fortunato. Viveva in una famiglia agiata, i genitori erano assenti tutto il giorno ma si era preso  cura di lui la  nonna materna che descrisse come “ disponibile ma non dolce”. Fece la scuola materna dalle suore, poi le elementari, le medie, liceo scientifico e poi ingegneria. Mai nessun intoppo.

“Non avevo nessun problema” diceva con voce triste.

“ E ora?” chiedevo io.

“Non lo so, ho paura”.

“Paura? Di cosa?”

Silenzio

Un giorno, era passato un anno dal nostro primo incontro,  si sdraiò sul lettino e mentre mi spostavo dietro,  lui mi seguì con gli occhi fino a spostare  la testa per mantenere  lo sguardo.

“Le racconto un sogno”. Mi disse.

“Certo, mi dica pure”. Risposi.

Iniziò: “Sono chiuso in bagno di casa mia. Seduto sulla tazza dove  riesco a vedere, questo anche nella realtà, uno spicchio di cielo che in altre posizioni non vedo.  Improvvisamente appare un  aereo enorme che prima  sembra impennarsi poi, come uno scoppio, una bomba e lo vedo precipitare. Io,  sento  le urla di chi era dentro l’aereo. Sono dentro l’aereo. Poi un rumore assordante. Capisco che è caduto non lontano da casa mia e decido di correre per vedere se posso dare un aiuto.  Arrivo sul posto, c’è tanta gente, curiosi ma nessuno si muove. Mi sento terrorizzato paralizzato. Non riesco a far niente e, mi sveglio”.

Silenzio.

Dario stava  piangendo.

Fine seconda parte.

 

 

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