Al tavolo accanto al mio è seduto un uomo con gli occhi pieni di polvere. La pausa pranzo è una mezz’ora in tutto e la passo veloce come un dovere, come una sfortuna. Ordino un menù completo di primo e contorno e una bottiglia di minerale da 66 cl. Lo sconosciuto non sarebbe neppure uno che ama farsi notare, eppure in questo cosmo di organismi che pranzano per necessità, senza toccare le portate con nient’altro che le loro viscere, lui risalta di una libertà segreta. Eppure è ingessato in un abito grigio e in una cravatta color ruggine, e credo di non aver mai visto niente di più anonimo e indifferente di questo. Anche i suoi capelli rossi, alla fin fine, sono il segno limpido della sua mediocrità, e la carnagione così pallida che sembra ricoperta da uno strato di vernice a base di resina. L’uomo ha l’aria da bancario, o forse da commesso viaggiatore, in ogni caso da l’impressione che viva in sospensione, senza pensieri né pulsioni, in una schiavitù formale da cui forse si libera soltanto la sera, quando rientra nel suo monolocale spoglio ma odoroso di disinfettante, e dopo una doccia e una cena fredda indossa una maglietta bianca e un paio di pantaloncini da palestra e si siede davanti alla Tv in cerca di un mondo da desiderare. Questo è quanto. Poi ci sono gli occhi; gli occhi pieni di polvere. Da ragazzo doveva essere uno sportivo, il suo fisico è ancora abbastanza tonico sebbene abbia l’aria di chi ha smesso da qualche anno di pagare l’abbonamento mensile alla piscina comunale. A scuola doveva essere un prodigio, andava forte nelle materie scientifiche, ma quando c’era da interrogarlo gli insegnanti naufragavano davanti ai suoi occhi, quegli occhi così somiglianti a un muro di mattoni, o a un pezzo di cielo livido, quegli occhi senza radici e senza domande. Così nella sua perfetta vita circolare quest’uomo si è ritrovato un giorno seduto al tavolo accanto al mio, smarrito nel suo mondo interiore ha spiluccato in un piatto di caesar salad affogata nella maionese, con uno sguardo ha considerato le nuvole in sospensione oltre le vetrate del caffè-ristorante, e ha annunciato a se stesso che l’arrivo della pioggia è forse previsto per il fine settimana. Poi ha fatto qualcosa di sconvolgente, un gesto che ha sparigliato tutto, che in un istante ha annientato tutta questa storia ridicola. L’uomo ha abbassato gli occhi sulla superficie del tavolo (la polvere è caduta, si è dispersa in uno sbuffo di neve), gli occhi sono diventati improvvisamente limpidi. E ha sorriso.
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José Saramago, LUOGO COMUNE DEL QUARANTENNE
Quindicimila giorni secchi sono passati,
Quindicimila occasioni che si sono perse,
Quindicimila soli inutili che sono nati,
Ore su ore contate
In questo solenne ma grottesco gesto
Di dare corda ad orologi inventati
Per cercare, negli anni smemorati,
La pazienza di andar vivendo il resto.