In italiano “esperienza” ed “esperimento” possiedono la medesima radice linguistica, nel cinema questi due lemmi si coniugano spesso in maniera felice, e quando accade ciò la metabolizzazione dell’opera si fa indicibile, il carico è sfaccettato e non ha maniglie per essere afferrato, si profila perciò un flusso interiore soltanto esperibile, nel senso che la visione esperienziale si costituisce in un alveo fortemente sperimentale. Chelovek s kino-apparatom (1929), film che pur avendo linee espressive ormai preistoriche (è un muto, ma in Rete si trova anche musicato), sa essere uno sguardo futuristico ancora da venire, è emblema di un’avanguardia artistica che traduce la visione oggettiva in coinvolgimento personale. Questa pellicola sovietica si prefigura come un Koyaanisqatsi (1982) ante litteram per il suo vagabondare tra i luoghi della civiltà (siamo ad Odessa) che annoverano le più svariate forme di sussistenza, di categorie: di barboni, di operai/e, di sportivi. Il taglio politico sottolineato da Wikipedia (link) scivola in secondo piano se viene preso in esame quello strettamente conoscitivo: qui è un cinema che parla di sé, che si sgancia dalla fiction per investigare la propria teoresi, che snocciola le sue qualità intrinseche e la malleabilità che lo caratterizza. Le sovrimpressioni, il taglia e cuci dei fotogrammi, gli effetti ottici dell’operatore che prima è una formica sopra la mdp e subito dopo è un gigante che sovrasta la città, sono tutte infrazioni improntate a scardinare il patinato mondo dello spettacolo. E la scena della cinepresa che danza da sola sul cavalletto è la benedizione del medium da parte di Vertov, strumento che pur riconoscendosi nella sovrapposizione con l’uomo (l’occhio-obiettivo) sa essere autonomo e straordinariamente vivo.


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