Se penso a L’uomo dell’anno mi viene in mente la faccia ammiccante di George Clooney su People. Capelli brizzolati, completo scuro impeccabile e cravatta leggermente allentata. Un invito sottile a tutte le americane a disegnare quell’immagine sul proprio marito in ciabatte, sul divano, che guarda la partita dei Sox.
Riviste patinate, ecco cosa mi viene in mente.
Rui Faria da Costa è il ciclista che quest’anno è salito sulla vetta del Mondo. I portoghesi, sangue del suo sangue, che l’hanno visto in strada o in televisione, sanno che quell’iride che adesso si porta addosso, vale molto. A Firenze c’era troppa pioggia, troppo freddo, perché il Mondiale potesse essere noioso, scontato, disegnato su misura. E’ forse anche per questo che lo hanno eletto Sportivo dell’Anno. Dietro di lui Cristiano Ronaldo, attaccante del Real Madrid, Pallone d’oro nel 2008.
Penso ai tacchetti che corrono su un campo di erba sintetica, alle divise bianche che rotolano sul campo per un fallo mai sentito, alla palla che non si usa se non rimbalza, se tutto è troppo imperfetto per continuare a giocare. E poi penso agli scarpini agganciati ai pedali, alle cosce e agli avambracci lucidi di pioggia, di sudore, all’asfalto sporco, insidioso, a quei caschi ghiacciati per la strada verso il Turchino, come improbabili baite di un inverno surreale. No, non è da People questo ciclismo, questi ragazzi che corrono nella tempesta senza giacconi, solo con loro stessi e una bicicletta sottile che pesa sempre di meno. Eppure per una volta, il ciclismo ha vinto anche qui. Qui dove importa fare una pubblicità in slip bianchi e con la faccia sbarbata, dove la bellezza è quella che amano tutti, che va di moda. Ha vinto il ciclismo che invece è di una bellezza straordinaria, tutta sua. Una bellezza che è in quelle piccole cose che riflettono il quotidiano. Fatta di muscoli tesi e di fango, di divise strappate, di cicatrici dimenticate e aperte. Perché è questo che dà la strada, quella dura che porta al traguardo. Ha vinto il ciclismo che con i vestiti eleganti è quasi impacciato.
Grazie Rui perché su quel palco non hai portato solo te stesso ma tutti noi che crediamo in queste piccole cose come in una religione nostra; perché a ricevere quel premio sono state mani che hanno provato la cancrena del freddo sui cambi, il rumore sordo di una frenata e la paura di una caduta. Per una volta il luccichio vero è stato quello dei nostri traguardi, dei nostri arrivi: stanchi, impazienti, sporchi, sudati. Arrivi pieni di gente che non ha pagato il biglietto e si comporta come se lo avesse fatto, come se veramente quel posto lì, in piedi, tra un anziano silenzioso e un ragazzino urlante, fosse prezioso come un seggiolino dello stadio. Arrivi che chiedono subito un’altra partenza e le polemiche le lasciano presto in un angolo.
Non so cosa ne pensino gli americani e quelli che si divertono a fare le classifiche ma per me lo sport dell’anno è il ciclismo. Con tutti i suoi scandali, le confessioni e il doping, rimane in equilibrio come ha sempre fatto: sulla bicicletta, in mezzo alle urla della gente. Le carte, i processi, gli scoop, le dichiarazioni, sì d’accordo. Ma continuo a voler bene al ciclismo come la prima volta, nella buona e nella cattiva sorte. Continuo a guardarlo con occhi ingenui, a voler bene a questi ragazzi che sono uomini forti e fragili allo stesso tempo, che sulla bicicletta svuotano l’anima per regalarla alle persone. Continuo a ghiacciarmi le ossa e a fare salti mortali per stare lì in mezzo, per vedere tutto dal vivo: il rumore dei tacchetti, il vociare prima della partenza, il profumo delle divise pulite, pronte per l’inferno. Tutto questo fa sembrare il resto un brutto e fastidioso sottofondo, un chiacchiericcio senza interesse.
Il ciclismo è lo sport dell’anno perché riflette anche un po’ noi stessi: pedalare è la prima regola di un mondo in crisi. Andare avanti anche nella tempesta, nella nostra tranquilla tempesta delle spese non sostenibili, delle rinunce anche al supermercato, delle bollette leggere dove stanno scritti numeri troppo pesanti. Il ciclismo è il nostro sport: ci sforziamo di essere puliti, di arrivare agli obiettivi, costringiamo le nostre gambe a resistere anche se ce le abbiamo di legno. E’ lo sport di noi imperfetti. Forse è uno sport da innamorati dell’esistenza. Perché è l’imperfezione che ci fa stare a galla: un neo, un orecchio un poco più grande, una voglia, ci rendono unici agli occhi di chi ci vuole bene. Ed essere unici per qualcuno è una delle cose più belle che possiamo chiedere a questa vita.