L’uomo di Kiev – Bernard Malamud

Creato il 28 maggio 2014 da Viadeiserpenti @viadeiserpenti

di Emanuela D’Alessio

La sofferenza non porta alla salvezza

In questi ultimi mesi l’attenzione si è concentrata su Bernard Malamud, lo scrittore ebreo americano di origini russe di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Per celebrare la ricorrenza è uscito anche il primo volume dei Meridiani Mondadori dedicato alla sua opera dal 1952 al 1966, Romanzi e racconti.
Fino a oggi avevo letto molto su Malamud e nulla di Malamud, interiorizzando commenti altrui e facendo mie affermazioni del tipo: «Il grande romanzo americano è stato fatto anche da Saul Bellow, Philip Roth e Bernard Malamud», oppure «senza Kafka, non solo Bernard Malamud non avrebbe scritto L’uomo di Kiev, ma il pubblico non sarebbe stato in grado di leggerlo», come ha scritto di recente Francesco Longo su Europa.
Ma la conoscenza della letteratura, come della storia o della filosofia, non può prescindere dalle “fonti” e dalla loro elaborazione. Soltanto dopo si dovrebbe esprimere un’opinione e, se si vuole, confrontarla con le altre, per scoprirne la sostanziale coincidenza ma anche l’eventuale diversità.
È con questo spirito che mi accingo a parlare di L’uomo di Kiev (The Fixer), pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1968 e oggi riproposto da minimum fax. Con questo romanzo, ispirato a un fatto realmente accaduto nella Russia zarista e antisemita del 1911, Malamud vinse il Pulitzer e il National Book Award.

L’incipit non lascia scampo, in un paio di pagine si è già dentro l’orrore e la tragedia dell’essere ebrei in Europa, cent’anni fa (come oggi, del resto, tornando per un istante all’attualità con il violento attacco antisemita a Bruxelles dei giorni scorsi), quando Yakov Bok pensò che fosse successo «qualcosa di brutto», si spaventò alla notizia che avevano trovato il cadavere di un bambino cristiano, accoltellato brutalmente e completamente dissanguato, e che le Centurie Nere (l’organizzazione russa di fanatici antisemiti) accusavano gli ebrei del delitto. Yakov Bok era ebreo, lavorava nella fabbrica di mattoni di un esponente delle Centurie Nere e abitava sotto falso nome in un quartiere dove gli ebrei non potevano abitare. Yakov Bok sarà accusato, ingiustamente, dell’omicidio.
È questo il terribile accadimento da cui Malamud prende il via, facendoci subito ricordare, se ce ne fossimo dimenticati, che Hitler non è stato né il primo né l’unico a concepire l’insana e feroce idea di annientare milioni di individui per il solo fatto di essere ebrei.
Malamud ha scelto un episodio minore realmente accaduto nella Kiev del primo ‘900, quello dell’ebreo ucraino Mendel Beilis accusato di aver ucciso un bambino a scopi rituali e poi assolto al processo, per parlare dell’abisso di ferocia e orrore in cui gli uomini riescono a seppellire le loro esistenze. Perché la persecuzione degli ebrei è stata un susseguirsi di umiliazioni, violenze e assassini, di cui l’Olocausto è solo l’espressione più eclatante, per dimensioni e follia.
Nel romanzo il malcapitato si chiama Yakov Bok, un ebreo piegato da una vita miserabile, abbandonato dalla moglie, un uomo solo che decide di avventurarsi lontano dal suo villaggio verso il mondo dei gentili. È il desiderio di una seconda opportunità, di sottrarsi al proprio destino, inteso non come fato ma come condizione esistenziale, la prima colpa di Yakov.
«La verità è che sono un uomo pieno di desideri che non soddisferò mai, non qui almeno. È ora che me ne vada e tenti la fortuna. Posto nuovo, vita nuova, come si dice. Tutto quello che ho ottenuto in questo disgraziato paese è una vita da mendicante. Adesso voglio provare Kiev. Se riesco a vivere decentemente, va bene. Sennò, farò sacrifici, risparmierò e andrò ad Amsterdam a prendere una nave per l’America. Per farla breve, io non ho quasi niente, però ho dei progetti».
Ma la colpa più grande, una colpa universale da cui non ci si può sottrarre, è l’essere ebreo, perché nessun ebreo è innocente, perché un ebreo non è mai libero. «Se vivi soffri – dice Yakov – ma certi soffrono di più, ecco che cosa significa essere ebreo».

Bernard Malamud

Chi vive nel dolore, tanto più se è ingiusto (ma esiste un dolore giusto?), dovrebbe infine beneficiare della pietà per trovare un po’ di sollievo e anche un senso alla propria sofferenza. Ma per Malamud non esiste pietà tra gli uomini, incapaci di sollevarsi dalla perenne e feroce lotta per la sopravvivenza, non c’è possibilità di sfuggire alla banalità del male e chi ci prova viene immediatamente annientato. Non esiste nemmeno la misericordia di Dio, che sia quello dei cristiani o Yahweh, «quello che spunta dalle nubi, dai cicloni, dai cespugli in fiamme e parla», o il Dio di Spinoza, che è idea eterna e infinita come la si scopre nella Natura. Di qualunque Dio si parli, lui non dice niente, «se sei un’idea, che cosa puoi dire?». Ognuno deve trovare Dio, nella propria mente o nelle parole altrui, ma Yakov Bok non ci riesce, lui non è un filosofo né un credente, non gli resta che soffrire. Nessuno soffre per lui e lui non soffre per nessuno all’infuori di sé stesso. Per lui Dio è un fallimento completo.
Sconfitta della religione, dunque, ma anche sconfitta della giustizia. Yakov Bok è infatti accusato, senza un atto di accusa formale, di aver commesso un brutale e odioso delitto al quale è estraneo; viene imprigionato per due anni, sottoposto alle più atroci umiliazioni e torture mentre i suoi carcerieri si affannano nella ricerca di prove inesistenti, deviate, grottesche, in attesa di un processo che non sarà mai celebrato.

È vero, non si può non pensare a Kafka e al suo Il Processo assistendo alla disgrazia di Yakov, alla meticolosa quanto ripugnante negazione della verità, all’irreversibile disfatta della ragione, al capovolgimento dei ruoli tra colpevole e innocente. Ma mi viene in mente anche Friedrich Dürrenmatt che sulla giustizia ha riflettuto da sempre, arrivando alla medesima conclusione: col venire meno di una fede, l’idea di giustizia si trasforma in crudeltà e fanatismo. I personaggi di Dürrenmatt sono giustizieri e riformatori del mondo, sostenitori di fedi contrapposte, personaggi grotteschi ma alla fine capaci di sedurre un’umanità alla ricerca disperata di un senso. «Lui non ha cercato di definire cosa fosse la giustizia ideale, ma di dimostrare come la presunzione umana di realizzarla trasformasse gli uomini in belve feroci», come si legge nella prefazione di Eugenio Bernardi a I dinosauri e la legge dello scrittore svizzero.

Yakov Bok, per tornare all’Uomo di Kiev, è lasciato solo con la sua sofferenza e la sua colpa di sangue. Nelle pagine dedicate alla lunga e terribile prigionia, le più intense e dalle quali emerge tutto il virtuosismo di Malamud, troviamo un’altra storia ancora, quella di un uomo che lotta contro l’infinita solitudine, contro lo scorrere del tempo che diventa eterno nell’immobilità dell’attesa, un’attesa popolata da attimi di speranza e giorni di disperazione, da momenti di lucida riflessione e di follia visionaria. Yakov, incarcerato, affamato, degradato, incatenato, perde la libertà, tranne quella di esistere, ma scopre di non essere più l’uomo che era stato.
«Una cosa ho imparato, pensò Yakov. Non esiste un uomo impolitico, specialmente se è ebreo. Non puoi essere l’uno senza l’altro. Non puoi restare con le mani in mano di fronte alla tua distruzione. Dopo un poco pensò: dove non c’è lotta per la libertà, non c’è libertà. Che cosa dice Spinoza? Se lo stato agisce in maniera incompatibile con la natura umana, il male minore è distruggerlo».
La sofferenza per Malamud, dunque, non porta alla salvezza, ma resta una condizione necessaria alla via della conoscenza. È questa l’unica speranza cui gli uomini non dovrebbero mai rinunciare.

Bernard Malamud, L’uomo di Kiev
Traduzione di Ida Omboni
Prefazione di Alessandro Piperno
minimum fax, 2014
pp. 405, € 14,50

Di Bernard Malamud abbiamo letto Prima gli idioti (minimum fax, 2012) e Il barile magico (minimum fax ,2011)


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