Dopo la recensione positiva di Francesco Forestiero, anche Gaia Conventi dice la sua, da una prospettiva un po’ più “cattiva”.
Il nuovo libro di Eraldo Baldini (Einaudi, 2011) mi ha lasciata perplessa. Lo dico subito, così potete odiarmi, e può farlo anche Eraldo, che ho il piacere di avere tra gli amici di facebook. A questo punto la cortesia professionale – se valutate che le mie ciance letterarie mi rendano collega di Baldini – consiglierebbe di soprassedere. Mai parlare male di gente che conosci: è questa la prima regola del piccolo acquario editoriale in cui tutti, chi più chi meno, ci troviamo a sguazzare. Eppure, come diceva la mia bisnonna – tanto per rimanere nel rurale, campo arato e battuto con successo da Baldini – a stare zitta mi crescerebbe un albero in pancia. Quindi, abbiate pazienza, ma devo dirlo: mi aspettavo un noir e sono finita a sbattere il naso contro un romanzo di formazione. Sia chiaro, non ho niente contro il genere. Non ho niente nemmeno contro i peperoni, ma so che non li digerisco e, quindi, evito di mangiarli a cena. Potrebbe essere questo il problema, mi sono messa a leggere un romanzo di formazione alla luce fioca – e mortifera – della mia abat-jour, mentre sul comodino occhieggiavano Lansdale e il dottor Jekyll, nella versione curata da Fruttero e Lucentini. Capirete che in una condizione simile serviva almeno un defunto a capitolo!
Non posso, però, pretendere di raccontarvi il libro in questa maniera. Vabbe’ lo stile colloquiale e il fatto che siamo amici, ma un tantino di serietà devo fingerla.
Il libro si apre col rimpianto del protagonista: ah, quell’estate del ‘63, il momento in cui ho smesso d’essere bambino... Poi si parte sul serio e Gigi è davvero un ragazzino, ha dieci anni e vorrebbe tanto comprare una bici nuova, ché la sua gli è diventata piccola e, come succede anche con le scarpe, batte in punta e andare avanti è una fatica bestia. Gigi ha una famiglia normale – normalmente povera, visti i tempi e la campagna ravennate che gli dà ossigeno, viveri e preoccupazioni –, un fratellino odioso, furbo come una faina e antipatico come le tasse, e, finalmente, una morosa che sbuca all’improvviso e lo fa camminare a due spanne da terra. Lei è Allegra – di nome e di fatto, con due occhioni da cerbiatto e l’aria di quelle che i dieci anni li hanno per gamba – e farà girare la testa al nostro giovane ciclista della bici blu.
Leggendo questo romanzo, vi ritroverete a pensare al libro “Cuore” e alla via Pal, i piccoli amici sbucano fuori a ogni pagina e fanno cose strane, cose divertenti: sono bambini, e se detestate i pargoli... è meglio seguiate il mio consiglio circa i peperoni. Pensano e si comportano da frugoletti pestiferi, sono buffi, beh, anche troppo. Spero di non aver assunto l’aria di quella che legge i classici nel timore di farsi sfuggire un sorriso, non è così, la satira – soprattutto quella cattiva – è il mio pane quotidiano: mi sfamo di libri e risate, ma detesto ridere per forza. Ecco, credo sia questo il problema, ma magari succede in tutti i romanzi di formazione, isolette d’allegria che io non frequento: troppe gag, al limite del paradossale. E poi, finalmente, arriva il cattivo. Sì, è così, a pagina 230 la bicicletta blu lascia spazio all’uomo nero, per una trentina di pagine. Unuomo nero condensato che fa una cosa cattivissima, l’unica che voi attendete, fin da quando avete letto il titolo. Tutti guardano con sospetto il probabile colpevole – mai letto “Il buio oltre la siepe”? – e l’allegria delle duecento pagine precedenti si spegne in attesa del male che aleggia sul panorama rurale. Titoli di coda lasciati al pianto, il protagonista torna al presente, lasciandoci intuire che quel 1963 – anno maledetto per molti, anche per Kennedy – langue ancora nel suo stomaco.
Di Eraldo Baldini ho amato un romanzo simile per ambientazione, “Quell’estate di sangue e di luna” (Einaudi, 2008), là si era nel ‘69, in attesa dell’allunaggio. Vi faccio notare che il nuovo libro di Baldini l’ho comprato di seconda mano sulle bancarelle – poco dopo la sua uscita in libreria – ma non ho mai scorto alcuna copia usata di quell’altro.
Sempre che questo voglia dire qualcosa.