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L'utilitarismo è il cancro della conoscenza

Creato il 17 agosto 2015 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua

Grottesco, gretto, ottuso e irrispettoso. Sono solo alcune delle definizioni più raffinate che sto cercando di evocare per classificare l'inclassificabile intervento di Stefano Feltri su Il fatto quotidiano del 13 agosto, che si duole perché "purtroppo migliaia e migliaia di ragazzi in autunno si iscriveranno a Lettere, Scienze politiche, Filosofia, Storia dell'arte". Già, in fondo "i ragazzi più svegli e intraprendenti si sentono sicuri abbastanza da buttarsi su Ingegneria, Matematica, Fisica, Finanza. Studi difficili e competitivi" e le facoltà umanistiche sono per studenti che "hanno voti bassi e non si sentono competitivi".

L'utilitarismo è il cancro della conoscenza

Ah, che bella ventata di generalizzazioni gratuite, tanto per riempire pagine e pagine nel vuoto di Ferragosto. Ci mancava proprio una pillola di intelligenza pura, eh? Ecco, proprio no. Siamo stanchi di discorsi vuoti finalizzati a misurare il presunto livello delle persone in base alla loro attitudine culturale. Siamo arrivati al punto che è preferibile essere dei tappi di sughero senza un briciolo di consapevolezza di sé che dei letterati, filosofi, storici dell'arte. Lo abbiamo già visto, il gusto per il sapere e la stima per chi desidera conoscere sempre di più è in via di estinzione, tutto ha valore esclusivamente se misurato in denaro, se inserito nella classe A delle attività umane e sottratto alla brodaglia indegna di tutti quanti deviano da una tendenza o da una moda.
L'umanista, dunque, è un individuo di serie Z per il fatto che viviamo in un'epoca di decandenza culturale, e poco importa che un giornalista preferisca sfoderare dati sulla scarsa occupazione di questa categoria di esperti (sarebbe stato bello che questo termine emergesse in luogo dello strisciante 'sfigati' che si percepisce leggendo l'articolo) anziché mettere sotto accusa un sistema che non riconosce il valore di una cultura che per secoli ha permesso il progresso, la crescita e il funzionamento di intere nazioni. Ma chiedersi come dovrebbero funzionare le cose e impegnarsi a farlo sapere a tutti è molto più impegnativo che scrivere una sequela di sentenze irrispettose.

Sì, perché, in quanto laureata in Lettere e orgogliosa di esserlo, mi sento offesa da un giornalista che, godendo di un seguito di milioni di lettori, mi presenta a loro, attraverso le sue generalizzazioni, come una persona sprovveduta, con poca attitudine allo studio, con voti bassi e scarse ambizioni. Ho solo, come molti altri, preso un diploma, due lauree e un'abilitazione all'insegnamento con il massimo dei voti e affrontato tutti gli ostacoli che i vari governi mi hanno messo davanti per avere tutti i titoli necessari a diventare una docente, con la speranza di istruire ragazzi che amino usare la testa per essere autonomi, critici e responsabili, indipendentemente dal loro destino di studi o lavorativo e dal marciume che si troveranno intorno. Mi sembra che la speranza di sfruttare una cultura (anche umanistica) per formare cittadini rispettosi sia più che mai un'alta ambizione di questi tempi, esattamente come potrebbe essere per uno storico dell'arte esporre a chiunque lo desideri il valore di un'opera d'arte nel Paese che in assoluto ne detiene la maggior parte nel mondo.
Il problema, semmai, è nella secchezza culturale che non permette a chi ha una simile istruzione di sfruttarla a dovere, ma questo accade proprio per la diffusione dell'ottica utilitaristica cui Feltri dà voce senza prenderne le distanze. I suoi dati possono anche essere corretti, si sa che la formazione umanistica non paga, ma i toni, anziché stigmatizzare la stortura del sistema in cui viviamo e degli errati investimenti che hanno negli anni logorato la cultura, cadono nell'offensivo, e quel "purtroppo" la dice lunga. Nel suo secondo pezzo, publicato il 14 agosto in risposta alle polemiche (alcune anche di tono personale, che minano la validità delle altre con argomenti che nel dibattito non dovrebbero entrare), Feltri parla di letterati che vogliono fare gli "intellettuali bohemien" e usa formule come "studiate pure quello che vi pare [...] ma nessuno ha il dovere di pagarci per il resto della vita uno stipendio se quello che piace a noi a lui non interessa". Il che è come dire che se oggi la produzione industriale danneggia le eccellenze artigianali e agroalimentari, chi sceglie di coltivare le tradizioni è un perdente che non ha capito come va il mondo. Vero, gli idealismi crollano di fronte all'analisi della cruda verità, ma la stortura è in chi si ancora ai propri valori, talenti, passioni e alle proprie competenze o nel sistema che calpesta tutto ciò. Sarebbe stato bello che Feltri, nel fare il Nostradamus del XXI secolo, spendesse una parola al riguardo, invece che definire "poco svegli" gli umanisti.
Dal suo primo articolo emerge che lo studente intelligente non studia Lettere o Filosofia, studia Economia, Ingegneria, Fisica. La conseguenza prodotta nella mente di chi segue questo pensiero non può che accentuare la deriva culturale, portando a chiedersi: "E allora perché dovremmo pagare un insegnante di Lettere o Filosofia, finanziare la ricerca in questi settori, tenere aperti i musei, puntellare i muri di Pompei prima che vengano giù fino all'ultimo mattone?" Che gli studenti si riversino in massa entro le mura delle facoltà tecniche ed economiche (contro le quali, sia ben chiaro, non ho nulla, non essendo io una persona abituata a stilare classifiche di ruoli e lavori) anche senza un briciolo di attitudine e interesse a questi studi: meglio un mediocre economista che un eccellente filologo, ci dicono gli utilitaristi. Faccio solo notare che tutta la sapienza economica accumulata nell'ultimo secolo non ha evitato (per non dire 'ha provocato') la successione di almeno tre enormi crisi mondiali e che fior fior di colleghi di Feltri saliti al governo sono stati totalmente incapaci di prevedere quella attuale e di farvi fronte... forse non sono queste le uniche conoscenze utili alla società contemporanea, e un po'di bilanciamento umanistico della questione (in termini storici, per esempio) avrebbe forse aiutato.

Anche se la normativa scolastica non solo italiana ma europea non facesse riferimento alla costante necessità di una formazione che tenga conto delle attitudini e delle capacità dei singoli studenti, ritenere auspicabile l'omologazione delle conoscenze attorno a poche discipline e l'eliminazione degli scarti di ciò che è percepito come inutile è a dir poco spaventoso. Appiattiamoci, diventiamo tutti uguali, abbandoniamo le peculiarità di un sapere che, nel suo essere umanistico, riflette ciò che è proprio dell'uomo: il bisogno di avere una visione completa della realtà, di dialogare e costruire una comunicazione di qualità, di spiegare i fenomeni nel tempo e nello spazio, al di là del momentaneo impennarsi di un indice di borsa.

Cosa autorizza Feltri o le sue fonti a dire che le facoltà umanistiche sono più facili delle altre? Vengano a seguire corsi di filologia greca, grammatica latina, glottologia e linguistica, letteratura in lingua straniera e filosofia, perdano gli occhi su testi antichi che vanno interpretati nella loro complessità, nella ricostruzione dei rapporti storici fra le popolazioni in base ad una o due parole, scrivano tesi che incrocino gli studi ermeneutici e antropologici di secoli e secoli e mi dicano se è così facile. E poi leggano Dante senza una nota, imparino e comprendano la successione degli avvenimenti storici dal 3000 a.C. ad oggi e con queste conoscenze superino un concorso ad accesso più che selettivo. Solo dopo tutto questo si permettano di dire che la vita dell'umanista è una pacchia per studenti svogliati.
Voglio forse dire che tutti gli studenti di Lettere, Filosofia, Storia dell'arte siano dei geni talentuosi? No, perché cadrei in una generalizzazione uguale e contraria a quella di Feltri: persone che si impegnano e si sacrificano per la loro carriera di studio o di lavoro si incontrano in ogni settore, esattamente come studenti e lavoratori svogliati. I muri di una facoltà non bastano a discriminare talento e fatica da mediocrità e indolenza. E, dato che ci sono, esprimo pubblicamente anche il mio sdegno di fronte a coloro che si sentono costantemente autorizzati a minimizzare i successi di un letterato dicendo che "beh, in fondo fa Lettere, mica Ingegneria", ma poi lo studente di Ingegneria è giustificato anche se rimane fuori corso dieci anni. Entrambe le casistiche e i pregiudizi (la facilità del percorso umanistico e la legittimità del procrastinare le lauree 'difficili') vanno a vantaggio unicamente delle Università e dei suoi baroni, che, comunque, fanno soldi sugli svogliati che scelgono una presunta scorciatoia o si accampano in pianta stabile in quello che i più considerano il Cocito degli studenti. Generalizzare fa bene solo all'istruzione peggiore.

Vogliamo risolvere ogni problema e mettere a tacere queste discriminazioni? Test di ingresso con sbarramento per tutte le facoltà e durata massima degli studi (con tutte le eccezioni del caso per studenti-lavoratori e simili, per evitare altre derive imbarazzanti come quella di Michel Martone nel 2012). Solo così avremo la certezza che ogni studente, umanista o economista che sia, si veda riconosciuti sacrifici e risultati in maniera inattaccabile, oltre che garantire una corrispondenza col fabbisogno del mondo del lavoro. Tengo, però, a precisare che non è solo il lavoro il motivo per cui si studia: sarebbe bello cominciare a pensare anche all'amore per la propria formazione, in conseguenza del quale si dovrebbe trovare una congrua professione.
Quanto al discorso sulle opportunità lavorative, ci sarebbero ancora due cose da dire. Innanzitutto, nei tre anni trascorsi dalla mia Laurea magistrale, non ho avuto né minori né maggiori opportunità rispetto a tanti colleghi economisti o ingegneri. Nel 2013 ho partecipato ad un campus organizzato da AlmaLaurea per l'orientamento dei neolaureati nel mondo del lavoro o della specializzazione post-universitaria e, udite udite, assieme a me, povera letterata, c'erano anche dottori in Economia e Ingegneria che sentivano i problemi della crisi occupazionale quanto me. Aggiungo che, dopo un corso in Comunicazione degli eventi, ho avuto una proposta di stage presso un'importante azienda locale che mi ha preferita a laureati in marketing proprio in virtù della mia formazione (io poi scelsi uno stage in una fondazione teatrale, che abbandonai per iniziare ad insegnare, ma questa è altra storia). Ho poi iniziato a fare, saltuariamente, il lavoro che desideravo, in condizioni precarie esattamente come quelle di molti dottori in economia e, anzi, ho iniziato a lavorare anche prima di alcuni di loro. Il mondo del lavoro richiede una buona dose di fortuna e la capacità di cogliere occasioni, la lungimiranza nelle scelte... non è il solo titolo a fare la differenza. In secondo luogo si vedono ogni giorno ingegneri contesi dalle aziende metalmeccaniche per fare il lavoro di operai con o senza qualifica tecnica, il che non vuol certo dire che siano scelti per il loro titolo di studio: molti datori di lavoro bramano i laureati per assegnare loro le mansioni di chi non ha titoli specifici. Ripeto ancora una volta che non sto distinguendo i meriti di diverse categorie di lavoratori, ma cerco di dimostrare che anche il valore dato a specifici diplomi o lauree è, in molti casi, poco più che uno specchietto per le allodole.

Il punto è che il "purtroppo" di Feltri sbaglia bersaglio. L'errore non è di coloro che decidono di seguire il proprio talento e la propria passione, ma della realtà culturale distorta in cui costoro vivono e con la quale ci si aspetta debbano scendere a patti, rinunciando alle proprie ambizioni (che non sono necessariamente piccole e insignificanti come crede il vicedirettore de Il fatto quotidiano) e prendendo una strada che li porterà ad essere uguali a tutti gli altri e ad ottenere risultati mediocri.

Il punto è anche un altro, però. Mancano il rispetto e la capacità di vedere nelle persone qualcosa più che un'alterità da contrastare, giudicare, annientare, sminuire. Perché assumere ogni volta un punto di vista superiore dal quale sentirci in diritto di dire chi sbaglia e chi no nel condurre la propria vita? Meglio per gli ingegneri, se non ci saranno filosofi pentiti a soffiare loro il posto!
Distinzioni fra studenti o lavoratori di serie A e di serie B non dovrebbero esistere: ciascun individuo deve essere valutato per il suo impegno e per i suoi risultati, quale che sia l'ambito in cui è chiamato ad operare o che sceglie di fare suo. Quest'ottica generalista è solo un filtro dannoso nella costruzione dei rapporti interpersonali e sociali. In più è proprio da prese di posizioni così rigide che si origina la tendenza all'accettazione costante di ogni stato di cose e si soffoca la possibilità di ristrutturare ciò che si è perso.
Mettersi a disquisire su presunti abissi fra il valore della cultura tecnico-scientifica e quella umanistica è un pessimo vizio dell'era contemporanea, che, purtroppo, sta entrando anche nelle scuole. L'articolo scritto da Feltri in risposta alle polemiche scatenate dal primo intervento dimostra questa convinzione: le critiche, a detta di Feltri, sarebbero dovute al fatto che in Italia non accettiamo il sapere scientifico dei numeri e identifichiamo la cultura solo con il sapere umanistico. Feltri, evidentemente, dimentica ancora una volta non solo che gli Umanisti si occupano da sempre anche di scienza, bastino come esempi Democrito, che ha ipotizzato l'esistenza degli atomi nel V-IV secolo a.C., Plinio, che, per conoscere la natura, ha addirittura lacrificato la vita, l'impatto filosofico delle tesi di Galileo, per non parlare del Nobel per la letteratura Quasimodo, che aveva intrapreso una carriera da ingegnere. Feltri sembra inoltre non notare che è stato lui il primo a mettere la questione su un piano scienza vs letteratura.
Il vero umanista accoglie ogni forma di sapere con entusiasmo e passione, mentre chi si preoccupa di definire conoscenze di maggiore o minore valore fa un torto alla cultura stessa. Si dimentica che la cultura non è fatta di compartimenti stagni, ma di incontri e scambi.
Sarebbe troppo facile usare con Feltri e altri utilitaristi la carta dell'imprescindibilità degli studi umanistici in alcuni settori oggi considerati vincenti, spiegando loro che se oggi le 'persone di successo' studiano la fisica è anche perché qualche latinista ha continuato a tradurre e pubblicare gli scritti di Newton e Galileo o che, se si riescono a ottenere milioni di euro dagli ingressi ai musei e ai siti greco-romani è perché storici dell'arte e archeologi hanno restituito grandi capolavori al mondo. E questo non significa deprezzare gli studi scientifici, anzi.
O è forse la consapevolezza dell'irrinunciabilità di tutto questo che spaventa chi non riesce a capirne il valore al punto di tollerarne e incoraggiarne il declino?

C.M.

NOTE: Per ampliare e godere di una lettura alternativa dell'intervento di Feltri, suggerisco l'appassionato post di Valentina su Criticissimamente e quello più puntuale e rigoroso di Hamilton Santià, dal titolo La cultura qui aveva molto valore, che contiene un pregevolissimo riferimento a Olivetti, che di umanisti ne conosceva tanti e capiva l'importanza della cultura anche nella propria impresa.


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