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La ballata di Silvio e Gianfranco. Quando finisce un amore.

Creato il 30 luglio 2010 da Massimoconsorti @massimoconsorti
La ballata di Silvio e Gianfranco. Quando finisce un amore.Fin da piccolo a Paolino, Silvio ne ha combinate di tutti i colori. Fregava i soldini nel portamonete della mamma Rosa e gli schiaffi li beccava Paolo, torturava il gatto della vicina e Paolo andava a letto senza cena, fumava le sigarette di papà Luigi e riusciva, non si sa come, a far puzzare di fumo l’alito del fratello. Il massimo lo raggiunse quando fregò a Paolo il trenino Rivarossi che aveva ricevuto per Natale per andarlo a rivendere al ricettatore di giocattoli e intascare la moneta. Fin da allora, il nostro unico e vero supereroe, quello che le donne le spacca in due, dimostrò un invidiabile e precoce fiuto per gli affari e una tendenza alla leadership che si sarebbe portato appresso nel corso degli anni. Abituato a spadroneggiare in casa, dove Paolo non riusciva neppure a mangiarsi in santa pace pane e marmellata senza che glielo farcisse con il contenuto di una fialetta di liquido puzzolente, Silvio ha mantenuto intatta la propensione al comando smussando però nel tempo i suoi angoli violenti per trasformarli in quelli del fascino suadente del venditore di batterie di pentole prima, di sogni a poco prezzo durante, e di balle spaziali manco fosse Mel Brooks, poi. Quando con i suoi soci e confratelli Confalonieri, Dell’Utri, Dotti, Previti,Verdini e la supervisione di Tano Badalamenti e Licio Gelli decise di mettere piede nel mondo della politica per non finire in galera, disse a se stesso che non avrebbe mai permesso a nessuno di ostacolargli quella che si preannunciava come una vera e propria marcia trionfale. Aiutato anche dalla pochezza dei politici presenti allora sulla piazza (gli stessi di oggi) e dall’ignoranza degli italiani che aveva coltivato a pane e prosciutto cotto Rovagnati, Silvio iniziò il suo cammino partendo dalle televisioni e, attraverso i procacciatori di affari di Fininvest e Publitalia, trasformò le sedi delle sue agenzie in quelle di un partito dalla mattina alla sera. Suoi testimonial furono gli “eroi” della gente, Raimondo Vianello, Mike Buongiorno, Iva Zanicchi, Corrado e i giovani dj e cantanti falliti, Jerry Scotti, Claudio Lippi inseriti tutti in trasmissioni che interrompevano il corso secolare della pubblicità. A fronte di un potere mediatico assoluto e dell’acquiescenza delle mezze tacche della cosiddetta opposizione, Silvio pensò bene di sdoganare la vecchia destra fascista (un consiglio che gli diede Licio Gelli fra una cazzuolata e l’altra) e di portare dalla sua parte quello che, allora, poteva disporre di un discreto serbatoio di voti. Gianfranco Fini, delfino del leader maximo del Msi Giorgio Almirante, accettò di buon grado la corte dell’imbonitore di Arcore, “Persa per persa – si disse Fini prendendo atto che da solo non sarebbe mai andato al governo – proviamo con il nano milanese”. Nacque così la santa alleanza della Destra storica con Forza Italia, e successivamente la emergente Lega Nord, che fece provare finalmente a Fini (ma anche ai miracolati ex luogotenenti Gasparri e La Russa), l’ebbrezza del comando. Solo un uomo provò a mettersi di traverso sulla strada di Silvio proteso alla conquista dell’Impero, Romano Prodi, un mite professore di economia bolognese che lo sconfisse due volte su due alle elezioni. Ma Silvio non dovette far nulla per eliminarlo visto che ci pensarono i suoi. Prima Bertinotti, poi D’Alema in coppia con Cossiga (un’alleanza che ancora invoca vendetta al cospetto di dio), poi Walter Veltroni ‘u americanu che, decidendo (e annunciando con largo anticipo) che avrebbe corso alle elezioni da solo, fece defilare dal traballante governo di Romano prima Dini, poi Mastella, poi la stessa sinistra: un capolavoro di lungimiranza politica. Evidentemente però, qualcosa nel delicato meccanismo dei rapporti politici e interpersonali fra Gianfranco e Silvio, con il passare dei giorni, si è inceppato. Da una parte Silvio ha continuato a proteggere in nome del garantismo, i delinquenti della peggior specie, dall’altra la base dell’ex An ha iniziato a rumoreggiare stanca dell’assoluta mancanza di idealità di un partito, il Pdl, considerato di esclusiva proprietà di Silvio. Aveva iniziato donna Assunta Almirante poco meno di un anno fa a dire a Gianfranco di andarsene, avevano continuato persone come Granata, amico intimo e sodale di Paolo Borsellino e quella manciata di deputati e senatori che ne avevano piene le palle della non politica di Silvio sublimatore dei vizi italiani all’estero. Basterebbe ricordare, a tal proposito, la faccia di Fini quando Silvio diede del “kapò” a Schultz per rendersi conto che prima o poi quel rapporto sarebbe imploso. Ed è successo in un momento in cui, per piacere riflettiamoci su un attimo, i finiani hanno iniziato a invocare il rispetto della legalità e una maggiore democrazia interna nel Pdl. I finiani, a un certo punto, hanno detto: “fuori il malaffare dalla politica”; “gli inquisiti farebbero meglio a fare un passo indietro”; “non possiamo non condividere il lavoro dei giudici che combattono contro la mafia”; “lasciamo lavorare i magistrati di Caltanissetta”. In un paese normale, con un tasso neppure straordinario di legalità, questi concetti dovrebbero rappresentare il pane quotidiano e un momento di accordo solidale fra tutti gli schieramenti politici. In Italia no. Se queste sono le ragioni che hanno spinto Silvio a buttar fuori Fini e i finiani dal Pdl, dobbiamo prendere atto che: Silvio vuole che il malaffare faccia parte della politica; non vuole che gli inquisiti facciano un passo indietro; non vuole che i giudici combattano la mafia; non desidera affatto che i magistrati di Caltanissetta scoprano gli autori veri delle stragi di Capaci e via D’Amelio; non vuole che nel partito ci sia il dissenso preferendo continuare a considerarsi il padrone e non il leader. Alla fine ci siamo arrivati, ora sappiamo chi difende i delinquenti, gli affaristi, i corruttori e chi invece vorrebbe combatterli. Ma mica occorreva un divorzio per capirlo.

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