Nel giugno 1972 una fotografia fece rapidamente il giro del mondo cambiando per sempre il modo di vedere la guerra del Vietnam – e la guerra in generale. Raffigurava una bambina che corre nuda lungo una strada, urlando per il dolore provocato dal napalm. Il suo nome era Kim Phuc.
Ricoverata per molti mesi in un ospedale militare americano, contro ogni aspettativa Kim riuscì a sopravvivere, nonostante le ustioni che avevano devastato il suo corpo. Tornò al suo villaggio, alla sua famiglia. A lungo lei e la famosa foto vennero utilizzate dal governo nordvietnamita come strumento di propaganda. Era un “simbolo nazionale della guerra”. Ebbe la possibilità di studiare a Cuba, dove negli anni Ottanta conobbe il giovane studente che sarebbe diventato suo marito. Poi nel ’92, di ritorno da un viaggio a Mosca, la scelta che avrebbe – ancora una volta – cambiato la sua vita: la fuga in Canada. L’incontro, negli USA, con il Vietnam Veterans Memorial Fund. E di lì a poco, la nascita della fondazione che porta il suo nome, la Kim Phuc Foundation, che promuove la pace e il perdono.
Ho conosciuto Kim Phuc alcuni anni fa. Era a Comano per una puntata del programma “Era Ora”. Una signora gentile e sorridente. In lei le ferite del passato sembravano essere state lenite dalla sorpresa continua di fronte a ciò che la vita le ha riservato. “So che può essere difficile crederlo – dice oggi – ma a volte mi piace ripensare alla bambina che correva gridando giù per quella strada. Non è solo un simbolo della guerra: è il simbolo di un grido per la libertà”.
Alla vita di Kim Phuc è dedicato il documentario di Marc Wiese “La bambina e la fotografia”, in onda su LA 1 giovedì 10 febbraio alle 22.30 nell’ambito del settimanale Il filo della storia, curato da Silvana Bezzola.