Era il più alto tra i suoi simili comunque ne era l'ultimo possibile. Davvero non ci si spiegava come potesse stare in piedi e da solo poteva reggere una intera montagna. Di fatto se non l'avesse retta, nessuno di quelli sotto di lui ne avrebbe avuto la forza. Certe volte io stesso lo temevo quando già da lontano lo scorgevo salendo.
Come tutti i colossi ci proteggeva e spaventava al tempo stesso. Noi ragazzi mettevamo a dura prova la sua resistenza a colpi di pallonate ma non ricordo che mai abbia ceduto di un centimetro, solo i rovi di more riuscivano a rimanergli aggrappati e ovviamente le lucertole.
Era cosi il 52 un grande gigante di cemento nel bel mezzo di una pineta incolta e fitta che da dietro le sue spalle e dalla finestra della mia stanza mi chiamava a "grandi avventure"!
Col suo muraglione si era ricavato uno spazio e pareva tenere a bada il monte come avevo visto fare ad un enorme fermalibro di pietra coi volumi di una biblioteca scolastica. Io e la mia famiglia, vivevamo nella scala A, l'ala sinistra del gigante, considerandone il portone sotto il livello stradale come la sua bocca. poi c'era la scala B.
Il 52 era un palazzone abitato solo da ferrovieri e dalle loro famiglie, ed era l'ultimo civico di una via tortuosa e popolare che si inerpicava dal fiume che divide la città di Genova fino ai monti. Era la fine degli anni settanta e davanti a noi si apriva uno dei decenni più promettente e fashion della storia italiana, ma al momento, io Alessandro Giuseppe Alex e Marco detto "marcolino", eravamo alle scuole medie e puzzavamo di sudore, ci sporcavamo i vestiti come maiali scivolando sulle macchie di grasso che le auto dei nostri genitori lasciavano sul piazzale e giravamo incerottati per le cadute dagli alberi di fico della pineta. Naturalmente le ragazze non erano nemmeno prese in considerazione o forse erano loro a non farlo, non ricordo.
Marcolino faceva eccezione (credo che si guadagnò per questo il diminutivo), perche lui e sua sorella Delia erano sorvegliati da quella iena della loro madre ad ogni passo. Talmente tanto che Marco era spesso preda di vere e proprie crisi isteriche quando lei lo richiamava dal balcone.
La piazzetta era la nostra arena e ignorare i regolamenti condominiali il nostro principale obbiettivo.
Un condominio grande come quello generava diverse lotte di classe tra gli adulti, per esempio, quelli dei piani alti e quelli del pian terreno, i meridionali e i liguri doc, i sindacalizzati e non e poi quelli che erano dirigenti o meno. Gli adulti però ci tenevano che noi andassimo tutti d'accordo e ci considerassimo alla pari. Mah! Ma la divisione che più si sentiva era quella tra scala A e B.
Per un non precisato motivo, quelli della B facevano i fichi perché i loro pianerottoli erano più grandi dei nostri o perché le cantine erano tutte dalla parte nostra, ma davvero le famiglie più snob all'apparenza erano tutte in quella scala e alle assemblee di condominio mio padre diceva che erano "tarrucchi".
La signora della porta accanto a noi era una genovese vera e anche se mio papà, era di origini siciliane era comunque nato a Nervi e l'unico in casa a parlare in dialetto genovese con lei. Mia madre parlava poco e in italiano. Insieme loro due andavano ai mercati generali a fare la spesa e poi scattava una delle cose che ricordo con più gioia: la spartizione dei viveri acquistati in cassette di legno tagliadita. Non comprendevo perché ognuno non comprasse la sua spesa e bona ma a loro piaceva cosi: portavano a casa le cose ma poi cominciava un via vai di generi alimentari da una porta all'altra con lui o lei che si rincorrevano perché secondo loro ne avevano avuta più dell'altro. Vinceva sempre la Scià (signora) Traverso il cui cognome mio papà aveva bonariamente trasformato in Traversu ad indicarne la testardaggine tipica dei sardi. Me la ricordo magrissima quasi ossuta e di una età eterna ma non più giovane. Facile al rossore in modo patologico e riservatissima amava molto noi bambini perché suo figlio era già grande e quando avevo la febbre mi portava sempre una di quelle buste di giochi piene di ogni stupidaggine che io amavo molto. Viveva con il marito e la madre sclerotica convinta che il genero la avvelenasse e Bruno il figlio, un ragazzone timido e studioso che gli diede molte soddisfazioni, mica come mio fratello.
Sopra di noi, abitavano i genitori del mio amico Giuseppe di cui vi parlerò in seguito, e a salire ricordo solo alcune famiglie tra cui i Bianchi e gli Angelini
I ferrovieri o almeno una parte di essi facevano i turni anche di notte, come mio padre, perciò in alcune ore del giorno dormivano e questo modificava la routine di tutta la famiglia, in quelle ore io facevo i compiti o ero in castigo, perciò ti accorgevi dei giorni perché nessun genitore faceva scendere in piazzetta i suoi figli per non litigare coi vicini. Questo almeno in teoria era il motivo per cui litigavano comunque, perché qualcuno pur di levarci dalle palle ci mandava fuori lo stesso.
Era il caso di Alessandro. In assoluto lui era il leader indiscusso della nostra combriccola di rompiballe, e anche quello con la maggior libertà d'azione. Lui era la mente delle nostre malefatte perché non aveva paura di niente e di nessuno. Non era un bullo come ci sono oggi anzi mingherlino e sveglio com'era si imponeva per la sua velocità mentale e fisica, ed era capace di sfuggire a sua madre quanto ai ragazzi più grandi che adorava provocare in continuazione.
Aveva preso da sua madre i bellissimi occhi azzurri ma lei stessa non sapeva spiegarsi da chi invece avesse preso l'argento vivo del suo carattere. La signora Dara era una donna di una bellezza sconvolgente: tra tutte le mogli dei ferrovieri nessuna poteva reggerne il confronto. Alta e magra come una Mannequin con lunghi capelli castani ondulati, vestiva anni settanta e oggi, potrei dire che sembrava uno degli angeli di Charlie con le sue zeppe di legno o gli stivali color Cognac. Quando tornava a casa e passava salutava a voce bassa chinando la testa come per passare inosservata. Ma non dimentico la spessa riga di kajal nero che incorniciava gli stessi occhi azzurri di suo figlio, e la scia di profumo che lasciava dietro se insieme agli sguardi congestionati dei ragazzi più grandi di noi. Era una donna timida sposata ad un uomo che ricordo sempre un pò ragazzo nell'aspetto e bello come lei. La figlia, ugualmente bella in viso e Alessandro erano i loro figli ma solo lui era in grado di farle strillare la parola deficiente in modo da udirla fino al mare!
Che fosse inverno o estate il 52 sapeva regalarci mille possibilità di avventura e da solo costituì la più grande palestra che abbia mai frequentato. La grande curva che precedeva il piazzale, era il nostro posto preferito per giocare a palla avvelenata ma quelli più bravi di me, quelli che sul pallone non ci cadevano, come Alessandro e Giuseppe giocavano anche a "cannonate".
Il gioco consisteva nel tirare con quanta più forza possibile il pallone sul muro con un calcio, niente di che, ma il rumore del pallone di cuoio compresso sul cemento pareva davvero un colpo di cannone. Potevano però verificarsi due tipiche occasioni. La prima era che il pallone finisse nel giardino di mamma falcidiandone le calle o le ortensie ma la peggiore era che finisse nella Diga!
Il muraglione di cemento che conteneva la montagna aveva un buco profondo tra gli sterpi più bassi e il pallone poteva bucarsi tra i rovi se leggero, ma se era di cuoio finiva proprio li per il suo peso. Non dimenticherò mai la prima volta che Alessandro andò nella Diga a prenderlo.
dalla pineta camminò sul ciglio del muraglione poi lo vedemmo sparire tra i rovi e dopo aver tenuto il fiato sospeso il pallone schizzò dal profondo verso di noi e da quel giorno Alessandro fu una sorta di Perseo capace di uscire dal labirinto! Non c'era verso di capire il pericolo che correvamo, tranne quando la signora del quinto piano ci beccava dal balcone e si metteva ad urlare garantendoci un castigo esemplare( credo lo facesse apposta). A turno ognuno di noi avrebbe tentato di essere Perseo. Persino io.