L'adolescenza non portò soltanto tormenti interiori ma anche scoperte concrete. Dall'esterno, le difficoltà a collocarsi nel mondo, la velocità con cui una strada diventava vicolo cieco e l' ostinazione degli adulti a vederci ricalcare le loro orme, come se, il mondo a cui erano stati presentati loro, non avesse ancora conosciuto il fuoco ne dovesse farlo, ora che toccava a noi.
Dentro di noi, il fuoco c'era eccome e si chiamava Desiderio. In se, costituiva già l'antidoto ad ogni difficoltà esterna, poiché bruciava dentro più di un castigo ed era infinito, come nessuna punizione avrebbe mai potuto essere. Era però, anche energia propulsiva, combustibile nella camera a scoppio dei nostri cuori giovanili.
Desiderio di libertà, identità, autonomia, conquista e perché no, anche una serie di rivalse che somigliavano alle ripicche di un povero, che rifiuta un pasto caldo perché offertogli da qualche ricco disprezzabile, anche se ha fame. Quante facce aveva il desiderio nei giorni in cui il nostro corpo ne era custode e prigioniero al tempo stesso!
Lo vedevi negli occhi delle femmine, che un giorno cominciavano a brillare di una luce invitante e di iniziativa come quella che avevano la sorella di Giuseppe e Marcolino con le loro tettine accennate e i lunghi capelli lucidi, come anche in quelli dei maschi il cui sguardo, cominciava ad esprimere però, solo sete di possesso e una irruenza sconnessa ed imprecisa negli intenti.
Per quelli come me, in parte adolescenti come gli altri, c'era un terzo tipo di luce?
Dicevano avessi sempre lo sguardo triste ma non ricordo la tristezza, per come la raccontavano, abitare il mio corpo sgraziato. Io non tenevo gli occhi bassi, non fuggivo lo sguardo degli altri ne gli altri potevano sfuggire il mio, tuttavia, non potevo dirmi ancora un insolente. Direi oggi, che fossi decisamente un polemico perbene.
Le regole, la verità, le convenzioni tutte, io le avevo assorbite, credute e interiorizzate ma una ribellione antica me le faceva discutere interiormente. Non essendo considerato ancora degno di un confronto verbale paritario con gli adulti, mi limitavo ad interpretare fisicamente i ruoli che dovevo ma nella testa una vocina: non può essere tutto qui.
Le delusioni circa l'avere un fratello o dei genitori avevano ridimensionato di molto e precocemente la mia idea di famiglia. Rimaneva invitante come una mela rossa, ma avevo assaggiato anche il veleno del suo bisogno.
Mi era chiaro che ciò che sentivo circa la vita, la curiosità di essa che ne avevo, non mi avrebbe facilitato in una casa di persone come la mia, che dicevano di "accontentarsi", né in una religione che aspirava a nient'altro che ad una esistenza monotona e del tutto assoggettata al pensiero di un ristretto gruppo di eletti.
Certo, anche i miei amici provarono la stessa sensazione di estraneità ad un certo punto, ma se loro erano considerati irresponsabili e impulsivi quanto me, c'era nei loro adulti una sorta di fierezza per la loro sete di conquista che non vedevo nei miei.
Il mio alto rendimento scolastico nelle scuole medie era visto al massimo come un dovere assolto come ci si aspettava che fosse, per cui la mia intelligenza non era una specialità rilevante, come non lo erano la sensibilità o la gentilezza.
Mentre Alessandro e Giuseppe erano sul ciglio di un mondo che sembrava loro aperto, io venivo invitato a non scoprirlo, a temere le sue lusinghe e le persone che non facevano parte della cerchia di sicurezza che mi era stata "approntata". Inutile dire che effetto possa avere su un giovane la proibizione.
Il freno di questi divieti genero' in me una altra emozione propulsiva: la rabbia. La sentivo crescere come crescevano le mie ossa e di tanto in tanto, prendeva il sopravvento, limitando la prudenza con cui mi ero, fino a quel momento, lasciato inquadrare.
Le cose che avevo accettato mi definissero come l'essere "distratto" o "goffo" ma anche "obbediente" e " maturo" formavano di me uno strano personaggio nel quale non riconoscevo alcuna vitalità. Io mi sentivo tale solo correndo a rotta di collo per la pineta con la mia banda, o sul divano a far finta di fare la lotta con Giuseppe o con una cucciolata di orfani miagolanti di cui essere quotidianamente responsabile e nei disegni dell'ora di artistica che mi vedevano creare figure umane e bestiali fuse insieme che probabilmente oggi mi avrebbero spedito dallo psicologo ma allora, esprimevano soltanto la mia domanda principale: le persone possono essere bestiali?
Questi due me, quello obbediente e quello ribelle non potevano convivere senza fare di me uno squilibrato, per cui uno dei due sarebbe dovuto venire meno prima o poi. Uno dei due non sarebbe stato "adatto alla vita" che avrei scoperto esserci nel mondo e che volevo raggiungere al più presto, come tutti i ragazzi. La libertà di cui mio fratello di soli tre anni più grande godeva, era spropositata rispetto ai mille limiti a cui io, ero invece soggetto. Perché?
Pur avendo anche lui dei tratti ribelli, sembrava che i miei non li vedessero, o che addirittura li temessero o se ne sentissero responsabili, al punto da non ostacolarlo. Di lui sembravano fieri o di certo meno preoccupati che di me.
"Quando sei arrivato tu lui ha avuto le convulsioni per giorni, temevo che morisse" mi disse una volta mia madre. Io lo cercavo molto da piccolo, preparavo per noi dei giochi e poi lo chiamavo ma non veniva mai. Le uniche attenzioni di cui mi faceva oggetto erano violenti scontri in cui, gracile com'ero, finivo per subire fino a piangere dal male. Che stupidi i giochi dei fratelli, sembrava logico che ci fosse una certa gelosia in lui, che la esprimesse come poteva. "Non siete mai andati d'accordo" disse mia madre molti anni dopo aver dimenticato che il motivo per cui andò così fu il suo egoismo. Fino a che punto la gelosia è solo un modo in cui vogliamo sapere se saremo amati come prima?
Non è vero che una madre ama i suoi figli tutti nello stesso modo, sarebbe come dire che non ne ama nessuno in modo personale. Lui fu il primo a rispondere al suo bisogno di normalità, a farla sentire una "donna come tutte le altre": capace di essere madre, ma come in tutte le cose degli adulti non seppe "accontentarsi" come diceva a noi di fare. Volle vedere se quella sensazione che la metteva finalmente al centro di qualcosa non potesse essere ancora più intensa. Qualcuno disse che lei era stata meglio di una madre normale avendoci adottati ma non lo fece per noi, lo fece per se stessa e per se stessa, fece anche tutto il resto.
Così per placare il fallimento del suo piano "materno"di normalità personale non corresse la pericolosa deriva del suo favorito, discutendo sempre più accesamente con mio padre, il quale desiderava porgli un limite e si incarico' di gestire me, in qualche modo, a quel punto, considerato se non colpevole, almeno causa di un grande disturbo per tutti. Il tutto ignorando la singolarità di ognuno di noi.
I miei problemi di salute da piccolo, rendevano il suo accudimento stretto apparentemente motivato da amore ma nei gesti con cui provvedeva a me sin da piccolo c'era la tensione di chi è costretto a farlo suo malgrado e forse anche malvolentieri. Troppo imbarazzanti le mie domande infantili e dopo da ragazzo l'imbarazzo crebbe a vista d'occhio. Superai mio fratello in ogni campo e senza sforzo e mi guadagnai loro malgrado molto apprezzamento da chiunque ma niente non bastava ancora. Forse era vero che eravamo una famiglia normale ma non avevano considerato che il bisogno di essere amati in modo esclusivo di ognuno di noi due, era ben al di sopra della loro "norma" al riguardo e che per tale ragione ci avrebbe fatto agire al di là delle normali regole stabilite da loro o dal mondo. Soddisfatto o frustrato quel bisogno avrebbe insieme all'adolescenza sviluppato il suo potenziale.
Dentro di me cominciai a disgustarmi di tutti loro, delle loro bugie, del piatto sul tavolo messo lì senza gioia, della finzione con cui tutti sembravano aver trovato il modo di "usarmi" convenientemente ai loro scopi.
Ma anche io avevo fallito in un certo senso. Non ero riuscito a capire che figlio dovessi essere per piacergli e mi mostrai talmente desideroso di diventarlo da non accontentarli mai abbastanza ne abbastanza a lungo per essere felice anch'io, senza dover rinunciare completamente a me stesso. Chi di loro aveva mai fatto tanto perché io lo amassi? Nessuno.
"Ti abbiamo fatto sempre sentire inadeguato, perché tuo fratello soffriva troppo" scrisse molti anni più tardi mia madre " tu avevi solo bisogno di essere amato e quando me ne accorsi eri già andato a cercarlo nel posto sbagliato". Non conosco un posto più sbagliato della famiglia da cui provengo, come di quella in cui crebbi, infatti, queste parole non costituirono mai una richiesta di perdono. Mi resi conto più tardi che altro non erano che la sentenza di essere "perduto" ormai sporcato da un amore sbagliato, l'ennesima maniera di quella madre di sentirsi a posto. Lei aveva fatto la sua scelta, dovevo fare la mia. Ne feci una, forse la più infelice ma da ragazzi si agisce "normalmente" per estremi.
Se non puoi essere soddisfazione diventa il più gran tormento che puoi e diciamocelo, non c'è nulla che un ragazzo deluso e arrabbiato sappia far meglio, tanto più se dotato di una certa intelligenza istintiva.
Ma c'era una cosa che desideravo fare prima di diventare "problematico", e cioè imparare a nuotare, dato che i miei due genitori "normali", non ce lo avevano insegnato fino a quella età.
Giuseppe e sua sorella furono in modo assai curioso i migliori maestri che avrei potuto avere e ancora una volta la Banda del 52 si sarebbe presa cura di me!!