LA BATTAGLIA COME ESPERIENZA INTERIORE di Ernst Jünger (1895 – 1998)

Creato il 03 aprile 2015 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr

Testo impegnativo, da leggere dopo il monumentale Nelle Tempeste d'acciaio (che affronteremo in questo blog), di cui in un certo senso è figlio sul piano filosofico ed etico. Scritto nei primi anni venti, al tempo della debole e poco amata repubblica di Weimar, il saggio del pensatore tedesco è rimasto a lungo inedito in Italia. L’autore insiste sull'importanza di accettare la guerra come attività umana. Finché ci saranno gli uomini, ci sarà anche la guerra. Essa è madre di ogni cosa: è una legge di natura, non si può ignorarla. Anche le idee più grandi sono state decise in seguito a una disputa sanguinosa. Gli orrori delle trincee aiutano ad apprezzare la quotidianità domestica e la pace, ma non devono portare a bandire il conflitto. Le cose vanno viste dialetticamente; non si può eliminare uno dei due poli senza danneggiare la spiritualità dell'uomo che si è ricomposta con la guerra stessa perché essa ha permesso che istinti e pulsioni antichissime, proprie dell'uomo preistorico, riemergessero. La guerra è distruzione e creazione nello stesso tempo.

Torna, vivissima, la lezione del filosofo greco Eraclito; un mondo senza antitesi non è possibile. C'è un divenire che è passaggio da uno stato al suo contrario. Con la guerra si è recuperato il lato ferino e sanguinario degli individui che sembrava scomparso; il soldato che nel buio della trincea, spiega Jünger, afferra un'arma al minimo rumore sospetto, ricorda il primitivo pronto a difendersi in ogni momento in mezzo a una natura pericolosa. L’uomo sostanzialmente resta un selvaggio; la vita civile è un abito che finisce per cadere scoprendo la vera natura umana, legata agli istinti e alla violenza.

La normalità impoverisce e rende mediocre la vita:

"Abbiamo convissuto nel grembo di una cultura strampalata, più stretti dei nostri antenati, disintegrati tra voglie e affari, a rotta di collo tra piazze scintillanti e tunnel della metropolitana, attirati nei caffè dai bagliori degli specchi, viali, fasci di luce colorata, bar pieni di liquori scintillanti, tavoli di conferenze, tutto all'ultimo grido, una novità all'ora, ogni giorno un problema risolto, una nuova sensazione a settimana e una grande, rintronante insoddisfazione di fondo”.

In più punti il testo esprime una cultura vivacemente antiborghese.

La Grande Guerra ha permesso agli istinti più antichi di tornare in auge e ha fatto emergere una nuova "classe", un ceto aristocratico che ha sfidato la morte senza poi restare prigioniero di una visione meramente negativa del conflitto. Chiunque, dal bracciante allo studente, se valoroso può farne parte. Si insiste molto sul primato dell’uomo che ha combattuto, sulla sua tempra e sulla sua etica basata sul coraggio; le macchine di distruzione, sempre più potenti, hanno avuto un ruolo enorme, ma questo non intacca la centralità dell'uomo e della sua forza morale. Lo scrittore spiega che l'avversario deve essere combattuto con ogni mezzo, ma senza odio; i coraggiosi rispettano i coraggiosi per evidente affinità. Jünger ricorda un episodio al fronte; dopo un tremendo acquazzone che aveva reso inospitali i ricoveri, i tedeschi uscirono nella terra di nessuno e trovarono nel pantano i loro dirimpettai inglesi, anch'essi costretti a uscire dalle trincee. Venne naturale scambiarsi saluti e segni di stima, prima di tornare a spararsi. Una dialettica necessaria è quindi anche quella col nemico, una sorta di “fratello” che arriva a comporre la propria identità, come due lati della stessa medaglia, come un solo corpo.

Un libro certamente non facile, forse terribile, senz'altro spregiudicato e stilisticamente seducente, ma anche un punto di vista diverso dalla vulgata e soprattutto onesto, nel senso che l'autore scrive di guerra dopo averla conosciuta nel corso di tre durissimi anni passati a combattere.


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