Anna Lombroso per il Simplicissimus
Un ruota del Prater – smontabile per carità e vorremmo anche vedere – ma rutilante di volgare contemporaneità, collocata nel bel mezzo del Valentino. Una torre fiammeggiante di effimera futilità, a imperitura memoria di uno stilista megalomane e a futuro profitto del dinamico nipote, stagliata sullo skyline della serenissima. Un grande complesso storico di fianco al ponte di Rialto svuotato per fare da container e espositore di merci, ridotto a facciata o quinta teatrale.
Navi mostruosamente affette da gigantismo che sfiorano zone costiere vulnerabili e pesano su fondali fragili. Un ministro addetto alla cultura, all’arte e alla bellezza silente come una divinità assira, immoto come un dagherrotipo della funzione pubblica, ma attivo nel mandare per il mondo opere preziose retrocesse a piazziste di un paese delle cui attrattive non si cura. Lo stesso ministro che ha esautorato il suo dicastero delle competenze di indirizzo e scientifiche, dismettendo le funzioni e i funzionari per attribuire i poteri agli incaricati dalla politica, manager sprezzanti di quei beni non immediatamente profittevoli. E che con sovrana, remota e pilatesca indifferenza ha abdicato i doveri di tutela e sorveglianza anche sui pochi spiccioli ma sui molti opachi interessi del piano città.
E che dire della riduzione del centro storico dell’Aquila a risibile smart city, offensiva dei cittadini feriti e della loro storia tradita? O a margine, che dire del saccheggio della biblioteca napoletana dei Girolamini, del conferimento in cantina se non in discarica dei trecentomila volumi dell’Istituto italiano per gli studi filosofici, o delle spocchiose ristrutturazioni commerciali di palazzi storici, o della privatizzazione della Pinacoteca di Brera?
Tutto concorre a denunciare la consegna dell’arte, del paesaggio e della cultura all’ideologia del mercato, la loro degradazione a fatti economici o di bilancio, in una sonnolenta abiezione, nella quale gli usignoli dell’imperatore non cinguettano più nelle loro gabbie dorate, né per amore né per rabbia. Archistar e archi- stelline si esercitano nella loro siderale distanza dalle città, dai bisogni e dalle funzioni dell’abitare in operazioni creative sempre più aeree, ardue e impervie, che dovrebbero affrancare i luoghi dall’inarrestabile contagio della miseria, delle disuguaglianze e della violenza che generano, compiaciuti delle loro torri di cristallo che si specchiano le une nelle altre, taglienti, aeree e compatte e il cui splendore è fatto di puro e infrangibile presente e della promessa di un radioso domani. Mentre a poca distanza premono le bidonville o le tombe dei Mamelucchi abitate da milioni di persone, gli slums, le tane di cartoni catramati, le costruzioni abusive sui tetti o all’interno dei pozzi d’aerazione degli edifici, le nicchie di plastica riciclata e di mattoni sbrecciati, di paglia e di legname di recupero, in un tremendo e moderno squallore, fatto di inquinamento, rifiuti sfacelo. Quella separatezza la può misurare che si avventuri alla Biennale a visitare il “Common Ground” quel “terreno comune” sul quale hanno voluto esercitarsi 119 progettisti, con l’intento condiviso di accreditare l’architettura come valore collettivo che dovrebbe esaltare – cito – le idee di “continuità, contesto e memoria, attrattori di comunità”. E che ne gode come di uno spettacolo nel quale il costruire diventa un gesto geniale, bizzarro, provocatorio, adatto più all’intrattenimento che alla vita quotidiana. Così finisce che l’unico caso di architettura davvero politica diventa il progetto di Urban-Think Tank, una mensa nella Torre de David, grattacielo incompiuto di quarantacinque piani a Caracas, in Venezuela, costruito per una banca, ma poi, fallita la destinazione, occupato da migliaia di famiglie e diventato una favela verticale, cui si può pensare come a uno spazio offerto dall’architettura per dare città e cittadinanza ai più poveri del mondo.
Mentre intanto professionisti del mal-costruire, quelli delle Milano due, delle new towns dell’Aquila, degli sfregi più o meno megalomani continuano a oltraggiare il paese, una banda del cemento gradita al susseguirsi dei governi. e benedetta dai piani casa e dai piani città, allevata nell’acquiescenza all’illegalità, nei condoni, nelle varianti, nelle licenze e nella corruzione.
La crisi in cui siamo immersi come in una voragine dovrebbe averci mostrato il fallimento della cultura del fare, del pragmatismo sbrigativo e disinvolto, indicando che l’azione politica, sociale, economica e culturale dovrebbe essere sempre equa, responsabile e sostenibile e che questa transizione è ormai ineluttabile, unica e necessaria. A Torino, come a Venezia, come a Firenze, la discussione sul costruire, così come sull’agire a tutela e promozione della cultura, della bellezza e del paesaggio ruota essenzialmente attorno al valore monetario, intorno al profitto, all’utilità che come la manina provvidenziale di Adam Smith dovrebbe poi disseminare convenienza e benefici intorno di quel cemento che deve permanere almeno mezzo secolo per potersi “ripagare”.
Siamo abituati al ricatto: in questo caso l’alternativa obbligatoria è tra consegna ai privati e al loro profitto con l’auspicio che faccia cadere anche su di noi un po’ di polverina d’argento, o lo statu quo e quindi il degrado, costringendo all’accettazione dell’ingiuria alla bellezza, dell’oltraggio al paesaggio, della svendita dei beni comuni, imponendo la conversione della speculazione in opportunità.
Io sento che non bisogna piegarsi a questo, che è l’ultimo passo verso l’annientamento della cittadinanza: accogliere e gradire azioni che cancellano la nostra identità, i nostri diritti a una vita di qualità, la nostra storia, le nostre memorie. La ruota è provvisoria, la Torre di Cardin è a Marghera, periferia spregiata e umiliata, le navi movimentano turismo, i manager messi a dirigere il MIBAC portano soldi e pecunia non olet, Della Valle ripara qualche muro e augurabilmente promuove merchandise in qualche store dentro al Colosseo. E è irrilevante se l’opportunità di pochi non comporta ricchezza collettiva tramite l’apporto di nuove relazioni, l’introduzione di fattori di efficienza energetica, la creazione di nuovi collegamenti, di nuova socialità, di nuova urbanità che incrementa il senso civico del vivere sociale.
Io sento che non bisogna arrendersi ai finanziatori illuminati spinti avanti da Ornaghi: lo Stato non deve assolvere alla missione di fare “fund-raising” appaltando agli enti locali o ai privati i pezzi pregiati del patrimonio, così che tutto ciò che non è svendibile o appetibile è condannato alla rovina. No, il suo dovere è conservare e rendere accessibile a tutti i beni che sono già nostri e che dobbiamo difendere, che si potrebbe mantenere con il 5% dell’evasione fiscale annua.