Anna Lombroso per il Smplicissimus
Non mi ha mai convinta l’accusa alla televisione di essere, lei, la cattiva maestra, responsabile di tutti i mali della società. Semmai il male è nel fatto che si sia permesso a un plutocrate di possederle tutte, indirizzando consumi, condizionando gusti e inclinazioni, trasformando la politica in prodotto, i candidati in merce, gli elettori in teleutenti, contribuendo spettacolarmente a accreditare cattivi attori e comici, che in fondo è successo agli spocchiosi francesi con Coluche e agli “ingenui” americani con Reagan, a eleggere puttanelle, che non sono poi molto più rischiose o riprovevoli di rappresentanti sdoganati della varia prostituzione intellettuale. Semmai il male risiede nel fatto che abbia potuto occupare militarmente l’informazione e lo spettacolo, la distribuzione commerciale e l’editoria, la politica e l’immaginario italiano, del tutto indisturbato, personalizzando e privatizzando il sistema politico, parte delle istituzioni comprese leggi e Costituzione, opera che oggi si sta compiendo più sobriamente e altrettanto indisturbatamente, grazie alla inconsistenza criminale di una opposizione talmente invertebrata da essere stata “diversamente” al governo e comunque largamente correa.
Nemmeno Berlusconi è, lui solo, il male assoluto, semmai è il volto prestato, visibile ed ostentato di una parte del Paese, di una estesa porzione del ceto dirigente, dei contenuti e valori di una ideologia gretta, volgare, commerciale, arruffona interpretata con varie modalità e look ormai non troppo differenti da pagliacci o professori. Da qualche tempo ho deciso che io, come molti, dobbiamo dismettere la prima persona plurale se si tratta della condivisione di un vasto elenco di responsabilità che non intendo condividere, di colpe e manchevolezze alle quali non ho partecipato. Mentre mi resta il feroce disappunto di pagare obbligatoriamente il canone per una televisione che, lo dice in fondo anche l’invito a mettersi in regola entro il 28 febbraio, sarebbe più opportunamente impiegata come scatola, acquario, piccola serra per l’orto domestico, se invece ormai ci condanna a seguire senza interruzione lo svolgersi di una campagna elettorale ridotta a liturgia mediatica, a soap, a spot, a reality, tanto che dovrebbe poi estinguersi più opportunamente in televoto.
Si non credo che sia tutta colpa della Tv, ma certo è grande la responsabilità degli operatori dell’informazione, che in televisione vivono una festosa commistione di ruoli e vocazioni, tra giornalisti, ammesso che questo voglia dire qualcosa di più dell’obbligo di pagare l’iscrizione a un ordine arcaicamente castale, intrattenitori, padroni di casa, cuochi, truccatori, organizzatori di matrimoni, dispensatori di animali, baby sitter, consulenti di stile . E ormai, soprattutto, di intervistatori. Ce ne sono di più dei candidati, ma vanno sul sicuro che la rubrica dei nomi e dei numeri telefonici è la stessa, uguale per tutti come le agende e i programmi dei principali competitor. Così il format dell’intervista che ha dato la stura, quella della rutilante Barbara d’Urso, viene amabilmente replicato con poche variazioni quasi irrilevanti, con domande evasive sempre uguali e risposte elusive sempre uguali, a conferma che c’è un copione che circola tra spin doctor palesemente inutili e programmisti esplicitamente accomodanti. E a dimostrazione che chi fa scuola comunque, chi detta le regole è quello che da sempre insegna a trasgredirle, il pianista delle crociere, il barzellettiere della Valtur, affabile e velenoso, bonario e criminale, in una tremenda combinazione tossica. Se volessimo dare l’Oscar, o il telegatto, al peggio tra molto male, Annunziata, Mentana, Berlinguer, i diversamente “critici”, senza nemmeno prendere in considerazione gli entusiasticamente allineati, sul podio dobbiamo collocare la Bignardi.
La Bignardi, una di quelle ragazzone venute su da girl scout, sport sani, poco trucco, gnagnera, che fa dar ragione a Adorno, se la voce anticipa e riassume i tratti caratteriali e fisici, innamorando o respingendo, quelle che dicono cavolo anche fuori dalla fascia protetta, che anche le trasgressioni devono essere oculate, come dimostra la tremenda trovata della birretta, una, così puoi anche sottoporti alla prova del palloncino. Un po’ Marzullo e un po’ Fazio in gonna al ginocchio e camicetta – che mica fa più il grande fratello. Anche se lo perpetua con quell’istinto all’uso improprio che distorce la realtà, trattando con frivola leggerezza temi cruciali imprudentemente affidati a una come lei, e temi aerei affrontati col sussiego pensoso del più feroce perbenismo. Bisognava vederla tutta forosetta, ridacchiare come una collegiale delle orsoline alla prima festina coi ragazzi, compiaciuta e compiacente come la supplente preferita del preside. Bisognava vederla tirar fuori quella femminilità rimossa o censurata da una intrepida smania di affermazione “virile”, per “intortare” il premier uscente e guadagnarsi il suo consenso, la conferma alla guida di programmi che non informano, non fanno pensare, non divertono, non pongono interrogativi se non: ma che fine farà quel povero cane? Perché a lei come a tutti gli intervistatori ufficiali di regime non piacciono le domande, perché non vogliono risposte, preferendo le bugie, le illusioni, i giochi di prestigio e un’unica concretezza, quella del cachet. Oggi circolava in rete una sua confessione impunita, impudente e imprudente: “un pesce fuor d’acqua. È come mi sento in televisione…Ogni volta me ne dimentico. Ogni volta sono contenta di riprendere il lavoro col gruppo e lasciare la solitudine dello scrivere, immergermi nell’attualità, scoprire personaggi che hanno storie straordinarie, pensare a filmati, abbinamenti, cortocircuiti: il lavoro dell’autore televisivo può essere appassionante …. Ma quello che ogni volta mi sorprende come un ceffone inaspettato è quel che succede dopo che sei andato in onda: sei di tutti ….Non sei più un umano, diventi un simulacro, un corpo, un’entità astratta …”.
Non ci servivano le sue confidenze, c’è molto di “governativo” e poco di umano in chi di questi tempi preferisce gracchiare dal trespolo quello che i potenti vogliono farci sapere, rivelare non la verità, ma la potenza persuasiva delle loro bugie, convertire il loro squallore in “normalità” che li assimila alla gente, quella gente ferita, irrisa, umiliata che deve tirar giù il sipario su quel cattivo spettacolo.