I Deep Purple in una foto del 2004
In tempi preistorici, cioè molto prima dell’inizio della civiltà comunemente intesa, con città – fortezze, scambi commerciali fra un popolo e l’altro, abiti pregiati, corazze lucenti e spade di ferro resistenti agli urti più violenti, il culto della Grande Madre primordiale era diffuso ovunque e godeva di un prestigio enorme. Poco in fondo si sa ancora dei riti e dei culti ad essa legati essendo probabilmente, questi ultimi, di natura misterica e iniziatica. Uno, in particolare, giunge fino a noi da quel passato lontanissimo fatto più di ombre che di luci, poiché vi permangono tracce materiali miste a una costante e continua memoria ancestrale fatta di simboli e di figure rivelatrici e interpretabili conservatesi attraverso il tempo. Si tratta del rituale del “parto nella camera rossa degli ipogei”. La donna incinta, al momento del parto sembra quasi assidersi in trono al centro della camera circolare sorretta da due possenti colonne portanti poste all’ingresso. Le pareti, il soffitto, il suolo sono dipinti di rosso: scarlatto o porpora, iridiscente o scuro, offerta naturale e spontanea di sangue umano o animale. Per accedervi si scende al di sotto del livello del suolo, attraverso scalini scavati nella roccia o sentieri di terra battuta che portano direttamente al sottosuolo. Di questi ipogei, luoghi di culto nascosti ai profani, risalenti al periodo preistorico, gli archeologi ne hanno scoperti diversi, soprattutto in Anatolia, a Bogazkoy, nell’odierna Turchia.
Lucio Fontana - Attese
Il culto praticato in questi rossi ipogei era, in un certo qual modo, cruento e quasi orrifico e fungeva da iniziazione ai giovani maschi in età di maneggiare le armi e diventare guerrieri. Dunque la donna, gambe divaricate e ventre prominente, aveva, diciamo così, il compito importantissimo di “atterrire” gli adolescenti maschi presenti in tutte le fasi del parto, dal principio alla fine, con l’esibizione ritmica e accentuata del suo sforzo sanguinoso di espulsione del bambino dall’utero. I suoi lamenti continui o le sue urla di dolore, per le contrazioni e gli sforzi sempre in aumento, erano “coperte” dalle urla di esaltazione virile, ancora più forti e acute, dei ragazzi eccitati alla vista di un qualcosa di terrificante, di sconosciuto, di misteriosamente e prettamente femminile. Essi raggiungevano, in questo modo, la virilità: pregni di sangue e di umori femminili, vivendo l’attimo culminante del nascere, per prepararsi, in fondo, all’istante culminante del morire. Perché la Grande Madre e la donna in generale che ne incarna la sostanza e l’archetipo, hanno il potere di dare la vita come di stimolare o sensibilizzare la morte. Infatti, a parto appena avvenuto, il bimbo piange per suggellare la sua entrata nel mondo, ma può essere immerso anche in un cupo silenzio che non sarà mai rotto dal suo primo vagito. Vita e morte si compenetrano allora, e sono uniti fin dal principio nell’essenza dell’uomo. Il rosso della camera sotterranea acceca, stordisce, esalta, fa delirare. Il rosso del sangue, elemento del profondo, che predomina su tutto: matrice inconscia e divina di vita e di morte. La sacralità del rito forse sta proprio qui. Questi ipogei con la camera rossa centrale si trasformeranno in templi dove il sacrificio, che ivi si consuma, è sempre un’offerta di sangue e di dolore al mistero della donna dispensatrice di vita e di amore ma, allo stesso tempo, di morte e di dissoluzione finale.
LA CAMERA ROSSA DEL PARTO
L’uccello è dilaniato.
Piume dorate e sfondi blu cobalto,
la camera rossa del parto:
un dolore di remoti ipogei
si apre la strada ritornando.
In lontananze sonore dove è fecondità
il rito celebrato dimora il linguaggio perduto.
Aspro e buio si è fatto il silenzio:
a questo sangue profondo attinge
la voce cavernosa del rombo
Francesca Rita Rombolà
Immagini, sensazioni, visioni tutto si mescola e si fonde; tutto si mescola e si separa. Da un mondo lontano, da un tempo, da un’era di cui poco o nulla si conosce. Sacri ipogei, come camere nascoste e protette, luoghi di mistero vietati ai profani. Il buio, il dolore; il dolore e il buio. Spazio riservato alla fecondità e all’iniziazione; riti di passaggio: la nascita, la pubertà, l’età virile. Il fragile uccello, simbolo inconscio di un erotismo ancora latente e indistinto, muore con la sua innocenza delle cose, si trasforma nella cromatica metamorfosi delle proprie piume. La percezione di sonorità nella lontananza. Dal regno della Grande Madre: l’orrifico potere del colore rosso, la perduta dimora di un linguaggio tutto al femminile, che si manifesta nell’atto terribile del partorire quando la celebrazione del rito è compiuta. L’oggetto – concetto misterico del rombo giunto fino a noi per mezzo del sangue: sorgente di vita e di morte che attinge al profondo rosso dove vita e morte sono tutt’uno. LA CAMERA ROSSA è una poesia che fa parte della raccolta breve DIESIS di Francesca Rita Rombolà.
Una famosissima band rock inglese si è data il nome di DEEP PURPLE (profondo rosso o rosso del profondo, o anche porpora profonda). Il suo stile musicale fu rivoluzionario e unico fin dagli inizi (anni sessanta – settanta del Novecento). Un sound (intercalato dalle corde vocali un po’ groove, un po’ blues, un po’ hard del cantante Ian Gillan e, per la prima volta, dalla distorsione prolungata delle chitarre elettriche che insieme si trasformano in una miscela sonora davvero esplosiva) travolgente perché attinge nel profondo dove il sangue pulsa, freme, si agita dispensando la vita e la morte, e l’orrore suscitato dall’abissale profondità del regno della Grande Madre sale alla superficie come un urlo lacerante e liberatorio.
Francesca Rita Rombolà