Due papi insieme per innalzare all’onore degli altari altri due papi, Rocalli e Wojtyla, che sono l’uno il contrario dell’altro, la consapevolezza della Chiesa di doversi rinnovare e il congelamento dello statu quo ante. Forse quello dei giorni scorsi è uno degli eventi più curiosi nella storia della Chiesa, un tentativo di produrre delle larghe intese santificatorie al suo interno, un inciucio a colpi di beati e di miracoli che alla fine non fa altro che denunciare la crisi di gerachie che si confessano e si assolvono da sole, del tutto incapaci di uscire fuori da secolari schemi interpretativi.
Insomma è la dimostrazione che la barca di Pietro si trova in panne, senza riuscire a rientrare in porto perché è ormai troppo tardi, ma neanche capace di prendere il largo, come se fosse in una sorta di puntozero, immobilizzata dentro vecchi pensieri e paure che nulla hanno a che vedere con la fede in sé. E questo appare in primo piano proprio con il nuovo Papa che si sforza di dare un’immagine diversa, lasciando però intatta una sostanza che è ormai dura come il marmo e che è stata fatalmente introiettata, che agisce ormai come una palla al piede. L’altro giorno papa Francesco ha fatto un discorso di buon senso, che però finisce per radicarsi nel terreno di un facile moralismo piuttosto che in quello dell’etica: “Alcuni diranno la gioia nasce dalle cose che si hanno , allora ecco la ricerca dell’ultimo modello di smartphone, lo scooter più veloce, l’auto che si fa notare. Ma a me fa male quando vedo un prete o una suora con l’auto ultimo modello, ma non si può!. Io credo che la macchina è necessaria, si deve fare tanto lavoro, spostarsi tanto, ma prendetene una più umile. Se prendete quella bella, pensate a quanti bambini muoiono di fame. Soltanto quello. La gioia non viene dalle cose che si hanno”.
Immancabili applausi, quelli che nella nostra epoca scattano solo di fronte alla rassicurante ovvietà. Ma è del tutto evidente che il problema non è quello di mostrasi con l’utilitaria per non dare schiaffi alla povertà e alla fame, ma di eliminare povertà e fame che invece sembrano essere considerati dal Papa come fattori immutabili e “naturali”. Il problema è di capire come mai preti e suore, non tutti ovviamente, possano permettersi agi e lussi sottraendoli ai presunti usi della famosa pubblicità dell’ 8 per mille: chiedetelo a molti, ma non al Papa che forse una qualche idea più precisa ce l’ha. Il problema è di capire perché a questo ostentato pauperismo dei discorsi si contrapponga nella realtà il rifiuto di pagare l’Imu anche per le attività commerciali che, visto l’immenso patrimonio immobiliare della Chiesa penalizza lo Stato e i cittadini, molto, ma molto di più di quanto non lo supportino le opere caritatevoli. Perché si combatta con le unghie e coi denti per mantenere queste situazioni, per i miliardi di contributi alle scuole cattoliche che sono anch’esse un’attività economica e per lasciare immutato il truffaldino meccanismo dell’ otto per mille.
Altro che auto di lusso: lo scandalo è che non si toccano quei meccanismi che poi consentono di pagarle al concessionario. Lo scandalo è che si voglia semplicemente operare su un’immagine più accettabile, senza tuttavia recidere le radici di potere e di vendita di indulgenze da cui tutto questo è originato. Ecco perché la campana di quest’etica del pauperismo suona a distesa, ma con terribili stonature che denunciano la pessima tecnica di fusione tra messaggio e realtà. Anzi sembra quasi che vogliano essere un nuovo catechismo ad uso di masse depredate di diritti, di assistenza e di futuro: povero è bello. Un sostegno metafisico alla “necessità” del profitto, un modo di tradurre il famoso “siamo sulla stessa barca” dei padroncini confindustriali. Ma non è mai vero, nemmeno sulla barca di Pietro.