Magazine Per Lei

La canzone che dico per te

Creato il 10 maggio 2011 da Lacapa

Se c’è una cosa che mi si deve riconoscere, è l’ottimo gusto musicale degli uomini che mi sono scelta. Dico, non soltanto di quelli che facevano/fanno radio/musica (percentuale non indifferente), di tutti.

Se saltiamo quello che mi dedicò “Vorrei” dei Lunapop, con gli altri non ho mai sbagliato un colpo, sono stata meglio della classifica di iTunes, meglio dei critici di Rolling Stones, meglio dei giudici di X-Factor.

Tipo, io ed Èsolounamico non avevamo una canzone qualunque: avevamo la canzone d’amore per eccellenza, che quando la ascoltavamo rimanevamo tutt’e due senza parole e con gli occhi lucidi, «’cause every moment spent with you is a moment I treasure», e ci dicevamo sempre che «I just wanna hold you close, feel your heart so close to mine, and just stay here in this moment for all the rest of time». Eravamo giovani e lui mi aveva regalato un cd con tutta la nostra musica: oltre gli Aerosmith c’erano i Blink 182 di “I miss you“, Ibo con “La strada che ho scelto” e un sacco di altra roba bella e romantica, tra cui “Chissà se stai dormendo”, di Jovanotti, e a me faceva ridere tantissimo quella frase sul «ti vedo scritta su tutti i muri» perché mi divertivo a fare graffiti e quindi su alcuni muri il mio nome c’era eccome.

Originale mi conquistò con «ti ammiro per come ti approcci a questi anni mutevoli, mi piace quel tuo senso pratico, la tua forza e l’ironia», però non lo sa ancora che mi aveva conquistata, né mai lo saprà, visto quanti anni sono passati. Eppure, ogni volta che sento quella canzone, mi viene in mente la sua faccia su quella terrazza, gli occhi chiusi, la voce roca e la bottiglia di vodka liscia che aveva in mano: credo che fosse così sexy perché dietro quegli occhi chiusi c’era la sua fidanzata che abitava a oltre millequattrocento chilometri di distanza, che lui amava da impazzire e si sentiva nel tono quando ne parlava.

Il fiato mi si mozzò per la prima volta col Parolaio quando mi chiese, in chat, se mi piacesse Samuele Bersani. E voi sapete quanto io ami Samuele Bersani. La cosa che mi fece ancora più impressione fu che lui mi disse che gli ricordavo una canzone, “Le mie parole”, e mi domandò se la conoscessi. «Le mie parole sono sassi, precisi, aguzzi, pronti da scagliare su facce vulnerabili e indifese. Sono nuvole sospese, gonfie di sottintesi, che accendono negli occhi infinite attese», gli risposi io. Le sue parole hanno acceso per mesi i miei occhi di attese, e la sua voce, la voce del Parolaio, era una cosa che io non capivo come facesse a ridurmi in quello stato: diventavo completamente deficiente.

C’erano un sacco di canzoni che identificavo come nostre. Su tutte, “Un uomo”, di Eugenio Finardi. Vi giuro che ero io: sostenuta, impaurita, troppo giovane, insicura. E lui mi faceva quell’effetto di cui nel brano di Finardi: ero sua e lui mi pareva un regalo per me, ero rilassata, ero abbandonata, ero calma, tremavo, mi sentivo bella e intelligente e sapevo di piacergli. Insomma, ascoltate quel pezzo e avrete la descrizione precisa sputata di LaCapa a diciannove anni che viveva la relazione che aveva sempre sognato di vivere con l’uomo che aveva sempre sognato di incontrare. Poi è andato tutto in vacca, ma vi giuro che Finardi se lo pesco lo ammazzo, però dopo avergli domandato come facesse a sapere tutto prima che accadesse, e per quale cazzo di motivo non mi ha chiamata prima per avvisarmi che sarei stata male da cani.

Batteristalcolizzato faceva il batterista, quindi suonava, e io andavo ai suoi concerti. Una volta in un centro sociale c’ero solo io ad ascoltarlo suonare, lui si tolse la maglietta e io pensai che quella scena valeva il prezzo della solitudine e del sentirmi scema, senza aver neanche bevuto un sorso di vino. Però, ecco, ricordo molto bene come mi baciò al concerto dei Modena City Ramblers, e fu una cosa piacevole. Anche perché c’era gente, e noi quando c’era gente tendevamo a far finta di conoscerci a stento, invece quella volta no. Ero contenta che ci fosse, decisamente sì.

Pure Monsieur Déjà vu una volta mi fece un cd pieno di musica, lui che in radio ci lavorava: erano solo canzoni che parlavano di gente che si mollava, di dolore, sofferenza e atroci falsità. «Se non è vero che hai paura non è vero che ti senti solo, e non è vero che fa freddo, allora perché tremi in questo agosto? Perché tremi? Agosto è il mese più freddo dell’anno», cantavano i Perturbazione. E poi «I pray myself to sleep, I wish myself away», continuavano gli Smashing Pumpkins. Mi sarebbe piaciuto sapere cosa stava cercando, «might have known what you would find», giusto per non lasciare inesplorata la Via Lattea dei The Church. Avrei dovuto capire che, insomma, io ero l’ultimo dei suoi pensieri quando sentii “Domani mi sposo” di Daniele Silvestri: «È bella, è bella, è bella, è bella, è bella tua sorella». Sì, sono sveglia, sveglissima.

Tristezza a parte, erano tutte canzoni che dio, se valeva la pena ascoltarle.

Con una persona che non vorrebbe mai essere nominata qua sopra ascoltavo Vinicio Capossela, oltre che un sacco di bella musica, perché lui ne capiva abbastanza da parlarne alla gente. Gli regalai un libro proprio di Capossela, e trovò tardissimo il tempo di dirmi che quel libro era veramente, ma veramente, brutto. Ci rimasi male, giuro che speravo che gli piacesse. L’alternativa era un libro di Stefano Benni (e quello l’avrebbe amato di certo), ma non ero certa che lui non l’avesse mai letto e poi chi mi ci portava di nuovo al Salone del Libro di Torino a prendergliene un altro?

Un’altra persona a cui mi sono affezionata un bel po’, radiofonico pure lui, discuteva del fascino di Bruce Springsteen e sopra la libreria aveva un cofanetto di Manu Chao, e una quantità di dischi spropositata, sul serio, tantissimi. E i dvd di Friends, che male non facevano.

E non vi dico quante volte Fossati mi ha accompagnata in una stanzetta all’ultimo piano di una palazzina in centro, e quante volte dopo di lui è toccato a De André. Dei cantautori con le “c” maiuscole, in pratica, mi mancava solo Battisti.

E, trac!, ce l’ho adesso. L’ho beccato. Sì, okay, lui − c’è un lui, non ve l’avevo detto?, da tipo cinque mesi − s’è preso una cotta per il Caparezza dell’ultimo cd, e ascolta un sacco di Subsonica. E poi Ludovico Einaudi, non azzardatevi a parlare male di Ludovico Einaudi. Eppure mi sa che la nostra canzone non sarà né “Eden” né “Onde“, per quanto insieme le abbiamo ascoltate più volte.

Perché quando penso a lui mi viene in mente “Una giornata uggiosa” per via del fatto che una mattina l’ha citata e io non l’ho riconosciuta, poi quella sera siamo andati a cena in un posto dove c’era tutto Battisti a palla e quando ho beccato quella strofa, quella delle mutandine rosa, ho capito e mi è rimasto un sorriso ebete stampato in faccia per ore. Cioè, avete presente quant’è bello pensare che è un po’ dedicato a te quel «sogno al mio risveglio di trovarti accanto, intatta con le stesse mutandine rosa, non più bandiera di un vivissimo tormento, ma solo l’ornamento di una bella sposa»? O quant’è bello dedicarlo a qualcuna? Spero per voi di sì, anche solo per sentirmi meno scema.


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