Il lettore mainstream è abituato ormai ai Follett che popolano il mondo letterario e ad un fiume di parole spesso usato per rendere l'atmosfera storica o sociale del momento in cui viene raccontata la vicenda.
Ci sono però autori che non hanno bisogno di tutto ciò; a loro bastano poche parole (complice forse anche l'essere connazionali) per lasciarti interagire coi personaggi. Un “vedo/nonvedo” letterario, una meccanica semplice che non lascia spazio né a fronzoli né a interpretazioni troppo vaghe e inconcludenti. Nella “Hall of Fame” degli scrittori italiani con questo stile, io ci metto Mauro Corona. Uomo di montagna, e lo si capisce da subito. È il tipo di persona che non si perde a descrivere un tramonto, lo vive e te lo fa rivivere. In molti hanno contestato il suo cambiamento, di poco tempo fa, di porsi, di vestirsi, un abbandono e un tradimento di ciò che è stato. Io invece lo percepisco come un Divenire, il moto perpetuo che porta un uomo a migliorarsi o a peggiorarsi, ma comunque ad evolversi. A costo, a volte, anche di perdere le persone intorno a sé.
La casa dei sette ponti, in effetti, parla di una persona che subisce una trasformazione, se vogliamo un ritorno alle proprie origini dimenticate fra lavoro e orgoglio. Per dovere di cronaca anche il suo penultimo libro, Come sasso nella corrente, tratta di un mutamento, anche autobiografico, di un uomo che, in maniera introspettiva, compie un giro di boa. L'ultimo romanzo si protrae per 61 pagine. Più ringraziamenti. Scritto con caratteri grandi, molti “punto e a capo”, tante pagine bianche. Ai limiti della lunghezza di un racconto.
Eppure riesce ad essere quasi del tutto completo, pur essendo conciso. La contemporaneità descritta da Corona è la più minimale che si possa immaginare ma che ti circonda a tutto tondo. Tutto parte dall'ossessione di un industriale di Prato per una cascina con lunghi teli colorati che ricoprono il tetto; una casa che lui vede ogni volta che passa per il suo paese natale mentre viaggia per lavoro. Questa ossessione diventa coraggio e spingerà il protagonista a rompere con la routine e bussare alla porta della cascina per scoprire chi ci abita.
Da lì partirà un viaggio fisico e psicologico lungo sette ponti che dal paese riportano all'abitazione così misteriosa. Come va a finire non ve lo posso dire, ma se devo commentare l'ultima parte, posso dire che stona e può essere percepita come forzatura, se accostata al resto della storia che si presenta dura e vera. Aleggia un certo buonismo nella scelta dell'autore di una chiusura che pacifica l'animo del protagonista.
Forse di questo industriale non è stato reso bene il suo conflitto interiore fin dal principio, con conseguente vuoto finale?
Il paradosso che ho proposto tra la completezza dello stile di Corona e lo sbandierare una mancanza per concludere il libro, non è così inconciliabile come può sembrare se si percepisce che la conclusione cela un desiderio del protagonista; mostra la via più semplice da percorrere e allo stesso tempo più difficile da cominciare. Come la scelta di un bambino che deve decidere se mangiare il gelato o un piatto di insalata e sa che la mamma lo sgriderà se farà la scelta ovvia e quindi tentenna.
Forse ragionandoci sopra c'è una cosa di cui avrei dovuto accorgermi prima: lo stile asciutto, alcuni elementi magici, il finale a lieto fine. Corona non sta facendo nient'altro che raccontarci una fiaba moderna. E il mio fanciullo interiore ne è rimasto affascinato.
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