Ubicata a Calata Porta di Massa – Ingresso Porto via Nuova Marina la Casa del Portuale di Napoli sembrerebbe a partire dal ’68, soprattutto nei confronti di chi si ferma a contemplarla più da vicino, scrollarci dallo stato di torpore indotto da così tanta volgarità, scadente edilizia, e irrazionalismo intorno a noi. Come una delle più belle topiche utopiche dei tempi andati la Casa del P0rtuale di Napoli è un’opera di architettura organica che, come scrive il suo autore, pretende di diventare con le sue linee e le sue tecnologie un modulo integrato all’ecosistema e al paesaggio.
Aldo Loris Rossi è il suo autore e, dalla Seconda avanguardia, come poeta del futuro, la elaborò disobbedendo e infrangendo le convenzioni dell’edilizia all’ora tradizionali con un impeto artistico sconosciuto al razionalismo italiano e a quello internazionale degli anni compresi tra il 1968 e il 1980. Sembrerebbe che come in Sant’Elia il suo lavoro parta da una riflessione non solo architettonica ma urbanistica per tessuti metropolitani avveniristici e aggettanti sul futuro.
Il cemento armato e le geometrie organiciste sono i cardini della sua dialettica, strumenti che certamente stupiscono per i loro effetti scenografici ma che rendono l’architettura completamente aliena dalla storia culturale e naturale dei luoghi.
Quasi come negli anni più recenti Aldo Loris Rossi con la Casa del Portuale si dimostrò come l’antesignano di gran parte del pensiero dell’architettura contemporanea, e molteplici sue altre opere e progetti elaborano un linguaggio architettonico scultoreo originale, il quale presenta più affinità con il nuovo linguaggio da Archistar delle ultime generazioni che con quello del dopoguerra.
In un periodo in cui la politica non vincola più i criteri del gusto, il razionalismo ecologico di Rossi realizza esempi ingegneristici e strutturali da uraniche ambizioni, più adatte ai fogli immacolati del disegno tecnico che per città stratificate come quella di Napoli. Eppure la Casa del Portuale, ormai, possiede il suo perché, forse rivanga ancora, con le sue forme, le sue rette, i suoi cristalli e i suoi acciai, desideri di modernità oltre la modernità.
Attualmente quest’ultima svetta tra gli edifici circostanti, tra le archeologie industriali e portuali sospese tra i quartieri del Porto e di San Giovanni a Teduccio.
La virtualità ideale e geometrica e sì ultra-umanistica ma non regge la prova del tempo. L’architettura “ultra-modernista” del Rossi non resiste alla patina del tempo e risultava già immediatamente obsoleta negli anni in cui veniva edificata. Quest’ultimo fenomeno non dipende tanto dall’architettura ma dall’assoluta e clinica idiozia del momento del disegno e della progettazione, che non si è saputa limitare alle superfici astratte e piatte dei tecnigrafi ma si è lasciata esplodere al di là di ogni ipotesi di reale.
Il contesto urbanistico e paesaggistico naturale a confronto con Rossi divengono istanze vetuste, espressione di pura obsolescenza archeologica, e addirittura citazioni paleontologiche che cadono di fronte una archiscultura ignorante di tutto ciò che la circonda. Aldo Loris Rossi era negli anni ’70 ciò che è stato Frank Gehry negli ultimi anni, la riproduzione coattiva di un format architettonico che, costretto a ripetersi, ripropone nei più disparati contesti i propri lavori, alieni e privi di alcuna concezione transitiva delle dimensioni abitative.