Togliamoci subito il dente: La casa muda (2010) non è un bel film. Non lo è perché sotto la forma c’è il vuoto, la derivazione totale del genere, una sorta di Bignami che sintetizza, neanche troppo bene, i stranoti criteri horrorifici. Una casa sperduta nel nulla richiama già echi pallide di opere altrui, a ciò si affianca l’immancabile presenza che infesta la soffitta corredata da apparizioni ectoplasmiche che si materializzano alle spalle. Non manca poi la dabbenaggine del protagonista di turno, in questo caso la figlia di un tizio che ha a che fare con l’abitazione silenziosa, impegnato a comportarsi in modo diametralmente opposto a come qualunque persona dotata di buon senso farebbe. Insomma, la sostanza è di siffatta maniera e con tutta onestà dell’ennesima opera fac-simile non se ne avvertiva la necessità.
Eppure, nonostante la ruggine di stilemi e cliché offerti, e nonostante un budget low (6000$, solo quattro giorni di riprese), La casa muta si è guadagnato una vetrina prestigiosissima come Cannes grazie al suo canale comunicativo, il piano sequenza. Hernández, il regista, sceglie questa complicata via di rappresentazione per il suo film, e almeno di questo è doveroso rendergli merito perché la difficoltà della “presa reale” obbliga, immagino, ad uno studio minuzioso di ogni passaggio con una percentuale di possibilità d’errore prossima allo zero; si cercano soluzioni sì e no interessanti anche se alla lunga stucchevoli, come i riflessi sugli specchi, e si prova a fare atmosfera con risultati accettabili, ma una lampada nel buio è già di per sé un facile viatico per incutere apprensione.
La tecnica, come era prevedibile, non riesce però a mascherare il deserto di idee che fa da base, tanto che la risoluzione dell’inghippo è talmente fumosa da far emergere incongruenze e vuoti narrativi grandi così. Quindi, lasciate perdere gli strilli pubblicitari, PVC-1 (2007) è cinema cento piani sopra questo.